La guerra si preannuncia lunga, ma in un conflitto di logoramento la Russia è destinata a prevalere. L’Ucraina può organizzarsi meglio, ma alla fine cederà
Il conflitto russo-ucraino è entrato da tempo in una fase di logoramento strategico: non più guerre lampo, ma una sfiancante potenza che si misura giorno dopo giorno, attacco dopo attacco, morale contro resistenza. “Il campo di battaglia non è solo quello fisico: è politico, è psicologico, è dentro le debolezze dell’Occidente”, afferma Vincenzo Giallongo, generale dei Carabinieri con missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo.
L’Ucraina, sostiene Giallongo, nonostante resistenza e aiuti è destinata a perdere la guerra; la Russia sa che non può conquistare tutto, ma le serve solo sufficiente spazio per far prevalere la sua narrativa. Nell’Europa divisa e in un’America che cambia passo, le garanzie militari tardano, le minacce si manifestano con droni che sorvolano città come Copenhagen o Oslo, la voce della NATO vacilla. E così la “fine” del conflitto — o almeno un suo ordine — appare già immaginabile.
Generale, cosa ci dice oggi l’evoluzione del conflitto?
È evidente che l’idea di una guerra veloce, di una conquista totale dell’Ucraina in pochi mesi è finita da tempo. Le sue forze armate lo avevano previsto, certo, ma la realtà sul campo è andata oltre. Oggi la Russia punta al logoramento: vuol dire conquista lenta ma definitiva di territori, bombardamenti continui, anche con uso massivo di droni, attacchi mirati per abbattere il morale ucraino. È un conflitto che premia, nel lungo periodo, chi ha più risorse, chi può resistere più a lungo, chi non deve guardare alle elezioni o al consenso pubblico.
In altre parole, secondo lei, Zelensky e l’Ucraina sono già in una posizione di sconfitta strategica?
Sì, ma è una posizione forzata, non inevitabile. Zelensky ha assunto poteri eccezionali, questo è inevitabile in una guerra prolungata, ma non significa che l’Ucraina abbia già perso tutto. Ciò che è certo è che molti dei territori conquistati dalla Russia, specialmente quelli con fortificazioni già consolidate, sono ormai difficili da riconquistare. E anche con contromosse efficaci, le vittorie ucraine saranno circoscritte, tattiche, non decisive.
Lei ha detto che l’Europa appare debole. Quali sono i segni più evidenti di questa debolezza, specie alla luce degli eventi recenti, come i droni su Copenaghen e Oslo, o i sorvoli della Russia nei cieli baltici?
Sono segnali forti, non incidenti isolati. Mostrano che la Russia sta testando i confini: non quelli geografici soltanto, ma quelli della reazione occidentale. In Europa si discute da anni su cosa fare, ma poi si perdono mesi in decisioni fiacche. Le sanzioni sono armi spuntate. Le risorse per la difesa richieste da NATO e Unione Europea non sono mobilitate con urgenza. Anche questo alimenta la percezione che il Cremlino possa “prendere un poco di più” perché l’Occidente non risponde con la forza necessaria.
Eppure l’Ucraina gode ancora del sostegno europeo: militare, via armi americane, e mediatico.
È proprio qui il punto controintuitivo: il sostegno è reale, certo, ma insufficiente rispetto al dislivello delle risorse e al tipo di guerra che si sta combattendo. Non basta fornire armi: servono sistemi di difesa antiaerea capaci, unità addestrate, ricambi materiali, manutenzione, logistica. E l’Occidente ha molti limiti: economici, politici, morali. Quando gli americani o altri partner esprimono dubbi e diminuiscono le forniture, quando l’Europa non sa accordarsi su forniture o schieramenti, il vantaggio pesa sempre di più dalla parte di chi non ha limiti interni; o li ha, ma li trascura.
A proposito dell’Ucraina e del regime di Zelensky lei ha parlato di poteri eccezionali. Vuol dire sospensione di procedure democratiche. C’è il rischio che resti a lungo questo stato di cose?
Quando un Paese è in guerra, lo statuto democratico normale si sospende in qualche misura: si delega potere al Capo di Stato, si accelera il processo decisionale, si comprimono certe libertà. Zelensky lo ha fatto perché doveva farlo: decisioni rapide, coordinamento militare, gestione delle crisi. Ma non credo che questo stato sia pensato per durare indefinitamente. Il popolo, le forze politiche, gli altri leader stanno lì: quando la guerra finirà — o almeno quando un armistizio significherà passaggio a stabilità — ci sarà il ritorno alle procedure democratiche. Zelensky non potrà fare per sempre da solo.
Le fonti più recenti riferiscono che la Nato prevede “security guarantees” per l’Ucraina al termine della guerra, ma con incertezze su costi e partecipazione americana. Cosa pensa di queste garanzie? Possono cambiare l’orizzonte, o sono mera retorica?
Possono cambiare qualcosa, ma solo se sono credibili: se significano presenza militare concreta, impegni certi, mezzi operativi. Se restano parole — “garanzie”, “coalizione dei volenterosi” — senza impegno reale sul terreno, servono solo a dare morale interno, a tranquillizzare l’opinione pubblica. La Russia capisce queste sfumature, le studia, e ne approfitta. Se l’Europa non si mostra pronta a intervenire, se gli Stati Uniti guardano più ai loro problemi interni che alle alleanze, allora quelle garanzie rischiano di restare fantasmi.
Ma allora cosa può fare concretamente l’Ucraina per cambiare anche solo le prospettive?
Poche cose, ma decisive: migliorare le difese antiaeree, aumentare la capacità di produzione interna di materiali militari, rafforzare logistica, manutenzione, riparazioni rapide. Creare linee di difesa che non siano solo reattive ma anche deterrenti. E soprattutto, mantenere alto il morale: non solo della truppa, ma della popolazione, che vede ogni giorno distruzione. Se l’Ucraina gestisce bene queste risorse, può limitare le perdite e costringere Mosca a costi ancora più alti.
Qual è il suo scenario?
L’Ucraina dovrà cedere grandi parti di territorio se non vorrà essere nel tempo invasa tutta. Le serve non una resa morale, ma un compromesso strategico. Se le linee difensive si rompessero su più fronti, se gli aiuti esterni continuassero a rallentare, l’Ucraina rischierebbe di dover accettare un confine negoziato che non includa tutto ciò che vorrebbe recuperare.
E il ruolo degli Stati Uniti? Quello di Donald Trump è un disimpegno vero?
Sì, percepisco un disimpegno serio. Trump parla molto, usa la diplomazia, dichiara disponibilità al dialogo, ma spesso le sue dichiarazioni restano folcloristiche, non sempre supportate da atti concreti. Quando parla di pace, spesso significa pace sullo status quo, non pace che restituisce ciò che è stato perso. E questo è pericoloso, perché suggerisce che si possa negoziare partendo da una posizione di forza russa già acquisita.
Cosa vede come fine più probabile della guerra, sia sul campo che nella diplomazia?
Vedo un futuro in cui la guerra non finisce presto. Nei prossimi 18-24 mesi ci sarà molta pressione diplomatica, qualche negoziato, scambi di territorio, forse trattati locali con cedimenti ucraini su settori geograficamente periferici ma strategicamente importanti. La Russia, nel frattempo, consoliderà, fortificherà quelli che ha. L’Europa rimarrà divisa e gli Stati Uniti guarderanno ai propri interessi. La pace che emergerà, se emergerà, sarà un compromesso duro per l’Ucraina, costoso in termini territoriali, umani e morali.
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