Bill Ackman, mega-gestore di fondi, è stato l'ispiratore della repressione degli studenti pro-pal ad Harvard. Ma adesso ha cambiato idea su Trump
Assai più di qualche corteo domenicale, di qualche periferico magistrato distrettuale o di qualche “dem” radicale, sono i miliardari di Wall Street e i loro profeti mediatici a portare il primo attacco in forze contro l’amministrazione Trump.
A strillare contro i dazi che hanno fatto scoppiare la bolla dei listini azionari sono Jamie Dimon, il gran capo di JPMorganChase, sopravvissuto al collasso del 2008, oppure Ray Dalio, gestore-filosofo di Bridgewater, presenza fissa nella classifica dei super-ricchi di Forbes con 15 miliardi di patrimonio personale; o ancora Mohamed El Erian, a lungo super-gestore di bond governativi a Pimco e consigliere di Barack Obama, oggi diviso fra gli editoriali sul Financial Times e la guida del Queen’s College di Cambridge.
Tutti volti che non comparivano nella foto di famiglia dell’Inauguration Day di Trump, zeppa invece di miliardari Big Tech, fra l’altro concorrenti sempre più diretti della finanza tradizionale.
Se non sono stati gli oligopolisti dei mercati – per qualcuno “oligarchi occidentali” – ad aver attizzato il falò di Nyse, Nasdaq eccetera (qualcuno ne ha qualche sospetto) sono certamente loro ad aver premuto sulla Fed per alzare la tensione alla vigilia di un altro Lunedì “semi-Nero” (buio anche nelle dinamiche dei mercati: eloquente l’ira di Trump verso la Cina).
A Wall Street tutti appaiono comunque contrariati che la nuova Casa Bianca abbia scosso un pianeta che sembrava aver trovato un equilibrio geopolitico-economico soddisfacente per banchieri, broker e asset manager, a loro agio da tre anni con la guerra stabilmente radicata in Ucraina e Medio Oriente (petrolio e gas a prezzi alti/oscillanti, per fare un solo esempio, restano uno scenario gradito ai mercati finanziari; così come ora la prospettiva di un grande riarmo occidentale).
“I dazi di Trump sono una guerra nucleare mondiale che mette a rischio la fiducia del mondo negli Stati Uniti”, ha tuonato Bill Ackman, a capo di un altro fondo-corazzata di Manhattan, Pershing Square. Una gag molto virale, ieri, anche sui media italiani. Ma il curriculum di Ackman sembra meritevole – in queste ore – di una rilettura estesa.
Ackman – israelita sionista aperto sostenitore del premier Netanyahu – è uno dei principali donatori privati contemporanei della Harvard University, cui Trump ha appena minacciato di tagliare fondi federali miliardari. Il campus di Boston – il più antico e prestigioso degli States – ad avviso della Casa Bianca sarebbe ancora troppo accondiscendente verso le nuove pulsioni antisemite alimentate dai movimenti studenteschi filopalestinesi. Un esito che ad Ackman e ad altri suoi pari deve essere apparso un paradosso atroce, forse non meno dalle perdite finanziarie inflitte dai dazi di un presidente anche “loro”.
Il “billionaire” è stato infatti un leader della prima ora della reazione israelita ai focolai pro-pal accesisi nei campus Usa dopo il 7 ottobre 2023. La cacciata di Pauline Gay – prima presidente afro di Harvard, accusata di debolezza antiesemita verso i cortei anti-Israele – ha avuto Ackman fra i registi; ad Harvard è nata fra l’altro la sua conversione da storico sostenitore dem a endorser di Trump. La decapitazione pubblica di Gay è stata di per sé l’evento scatenante di una lunga campagna di repressione nei campus pro-pal, cavalcata con successo dal partito repubblicano agli inizi della campagna per le elezioni presidenziali.
La vittoria di Trump è maturata anche per la conferma dello storico legame con Netanyahu, in visita a Washington nei giorni drammatici della rinuncia di Joe Biden. Netanyahu è e resta il campione dell’establishment finanziario e sionista della comunità ebraica statunitense, per questo inviso agli intellettuali liberal. Il peso della prima componente è stato in ogni caso netto e importante a favore della rielezione di Trump. Ora, tuttavia, alcuni nodi sembrano venire al pettine.
Il primo – interno agli Usa – vede l’anti-élitismo ideologico-elettoralistico di Trump colpire duramente, senza distinzione, tutti i bastioni della cultura accademica woke, finora abbracciate anche dalle élite israelite. E fra i “santuari” del politically correct – anche pro-palestinese – certamente Harvard continua a primeggiare, nonostante Ackman e altri big donors abbiano installato come presidente commissariale un accademico israelita.
Lo sconcerto di Ackman per l’esordio dell’amministrazione Trump sembra traguardare d’altronde anche la crisi di Gaza. Il nuovo presidente si era impegnato a spegnerla subito e in effetti l’ha spenta con la tregua strappata a Gerusalemme e ad Hamas a cavallo dell’Inauguration Day. Poi però il cessate il fuoco è stato violato dal governo Netanyahu.
Quest’ultimo è tornato più aggressivo che mai anche sul fronte interno dei tentativi di riforma alla democrazia legale e materiale dello Stato ebraico (una traiettoria autocratica simile a quella di cui ultimamente è accusato Trump). E la Casa Bianca – in difficoltà anche nell’imporre la pace sul fronte russo-ucraino – sembra al momento accettare che a Gaza l’esercito israeliano torni a colpire ambulanze e ad uccidere donne e bambini.
Non è chiaro, tuttavia, quanto questi sviluppi fossero nei patti fra Trump e Netanyahu (e i loro alleati comuni negli Usa) o quanto invece il “progress” riveli l’intento del leader israeliano di imporre anche all’ “amico americano” le politiche della sua coalizione di estrema destra nazionalista, così come gli è riuscito con il precedente presidente democratico. E come – certamente – Trump non desidera riesca ancora a Netanyahu, quando lo scongelamento degli Accordi di Abramo fra Israele e l’Arabia Saudita è prioritario nell’agenda geopolitica della Casa Bianca.
Tutto questo – in superficie – non ha connessione con il crollo delle Borse. Ma la globalizzazione è per definizione “interconnessa”. E mette chiaramente a dura prova un presidente-tycoon eletto dall’America “dimenticata”.
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