Ucraina. Il vescovo Goncharuk, come Grossman, testimoniano l'orrore della guerra e la resilienza umana che trova speranza anche nel dolore
“Durante la guerra – scriveva nel 1941 il grande scrittore russo Vasilij Grossman – ho visto più di quanto abbia mai visto e vissuto in tutta la mia vita. È come se fossi diventato un’altra persona. Questa guerra è di una crudeltà immensa: combattono non solo contro gli uomini, ma anche contro donne, bambini, anziani – tutti subiscono colpi terribili, spietati. Ho visto città e villaggi bruciati, ho visto così tante cose che a volte mi chiedo come tutto questo possa entrare in me, come possa aver trovato spazio”.
Grossman era nato in Ucraina, a Berdyčiv. Pavlo Goncharuk è nato un po’ più a occidente, a Yarmolyntsi, ma oggi è vescovo dei latini nell’est del Paese, nella diocesi di Kharkiv-Zaporižžja. Leggendo le parole dello scrittore su un pannello della (potente) mostra a lui dedicata qui al Meeting di Rimini, che sembrano scritte oggi per quelle stesse terre, non si può non pensare che tutte le guerre si assomigliano.
Mons. Goncharuk parla oggi insieme a Konstantin Gudauskas, cittadino kazako. Il Meeting li ha chiamati in qualità di “testimoni che costruiscono instancabilmente dove tutto viene distrutto, che sperano contro ogni speranza”.

Monsignore, com’è al momento la situazione nella sua Ucraina?
Siamo in regime di guerra, la gente è consapevole che bisogna difendersi, ma dentro questa guerra bisogna al tempo stesso continuare a vivere. È molto diversa la situazione delle persone che vivono vicino alla linea del fronte, dove di continuo ci sono i bombardamenti e quelli vicino a te muoiono, rispetto a chi vive a 50-100 chilometri, o a maggior ragione dall’altra parte dell’Ucraina, a occidente. L’intensità di questa “vita in guerra” dipende molto anche da questi parametri geografici.
A proposito della guerra lei ha detto: “Proprio mentre il male si è dimostrato così forte, questa situazione ha portato alla luce anche tanto bene: la nostra compassione, il sostegno reciproco, l’amore”. Ci può spiegare meglio?
Sulle persone la guerra ha un po’ l’effetto di un microfono, che amplifica quello che hanno già dentro di sé. Dipende molto da dove ognuno prende le risorse per la propria vita. In una condizione di guerra, soprattutto, è molto importante il senso che si dà ad essa. La guerra porta alla luce chi sono io. Essa non solo distrugge materialmente tutto quello che c’è attorno a una persona, ma anche, in qualche modo, gli appoggi a cui si affida. E da questi appoggi dipende molto la percezione che ho di me stesso e chi sono. La guerra crea lo spazio per una ricerca di senso.
È molto importante, in questa ricerca, che una persona riesca a toccare con mano l’amore di Dio. Attraverso la carezza che Dio fa alla mia anima, io scopro dentro di me la mia propria dignità. Ed è questa dignità che mi rivela la mia identità. Il rapporto con Dio mi fa vedere chi devo essere, nonostante tutto ciò che mi circonda, ovvero la distruzione totale. Quando invece questa cosa manca, arriva la disperazione. E allora l’uomo avverte un grande buco, che si riempie di sentimenti aggressivi, di odio. Quel vuoto ricade sulle mie azioni, su come mi comporto.
Cosa vuol dire essere vescovo in un Paese in guerra? Appena ordinato, lei si è trovato in una delle situazioni più difficili che si possano immaginare.
La mia missione è legata a Colui al quale ho affidato il mio cuore. Io sono il compagno di Cristo. E Cristo è il mio compagno. Dove c’è il mio compagno, devo stare anch’io. Io sono rimasto con la mia gente perché anche Lui rimarrebbe. Ne sono convinto e, al tempo stesso, ne faccio esperienza: Cristo attraverso di me serve il popolo. Attraverso di me ascolta le persone e dà loro sostegno.
La guerra vi ha avvicinato o vi ha allontanato dalle altre confessioni cristiane? Lei ha ricordato esempi positivi, ma c’è stata anche una grande spaccatura con la Chiesa ortodossa russa, mi pare.
Probabilmente anche queste questioni si sono amplificate. Già prima della guerra c’erano buoni rapporti con tutte le confessioni e anche con le altre religioni. Cosa diversa il Patriarcato di Mosca, perché lì, al fondo, c’è la politica di Putin. Abbiamo fondamenta diverse.
I Papi, a partire da Pio XI e Giovanni XXIII fino a Francesco e a Leone XIV, hanno insistito che la guerra è diventata un’opzione non più praticabile. Qualcosa che bisogna evitare a tutti i costi, che bisognerebbe cancellare dalla storia delle relazioni umane, per quanto critiche.
I Papi avevano e hanno ragione a dire che bisogna far sì che le guerre non accadano. E non è questione di questa o quella guerra, più o meno estesa: perché già una sola guerra è qualcosa di orribile.
(Carlo Dignola)
