Israele attua pause tecniche del conflitto per gli aiuti, che vengono anche paracadutati. Così si svia l’attenzione dal vero piano: deportare i palestinesi
La trattativa è morta e, con essa, la speranza di un accordo su tregua a Gaza e liberazione degli ostaggi. E ora, per ammissione del segretario di Stato USA, Marco Rubio, si cerca una nuova strategia. Ma la nuova fase del conflitto potrebbe essere molto simile a quelle precedenti: qualche aiuto in più ai palestinesi per evitare le accuse di usare la fame per uccidere, ma anche la deportazione dei residenti della Striscia, destinati magari a finire in Libia, Etiopia o Indonesia. In più, l’annessione della Cisgiordania.
Un piano che accomuna israeliani e americani e che può essere sventato dalla comunità internazionale, che però finora non ha fatto abbastanza. È un tema, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato speciale del TG1 Esteri, che sta dividendo le opinioni pubbliche americana ed europea e i loro governi, suscitando una riflessione sui fondamenti stessi delle democrazie occidentali.
Il segretario di Stato USA, Marco Rubio, dice che la strategia su Gaza va ripensata. Come può cambiare l’approccio degli Stati Uniti?
Rubio dice che occorre ripensare la strategia su Gaza, mentre assistiamo a un susseguirsi di iniziative da parte israeliana e americana che hanno portato domenica alle cosiddette pause tecniche del conflitto, che dovrebbero salvare l’immagine di Israele e degli USA di fronte alla catastrofe umanitaria della Striscia.
Le persone morte di fame sono cresciute rapidamente negli ultimi giorni, arrivando oltre quota 100, e a queste si aggiungono quelle uccise quotidianamente: solo domenica, in mezza giornata, erano già 50.
Sono i risultati di una strategia che in poco meno di sei mesi ha prodotto prima il totale blocco delle forniture di ogni bene essenziale, dall’acqua, al pane, alle medicine, al cibo, poi un sistema di aiuti gestito direttamente dagli USA attraverso mercenari assoldati sul mercato internazionale, organizzato intorno a centri di raccolta diventati luoghi di mattanza, tanto da provocare mille morti nel giro di pochissime settimane. Sullo sfondo c’è l’incapacità di distruggere le milizie di Hamas, operazione presentata come già compiuta.
Ora però sulla Striscia vengono lanciati dei pacchi con gli aiuti. Una modalità già vista. Sta cambiando qualcosa nella gestione delle consegne?
È stato dato il via a un’operazione già vista l’anno scorso, paracadutando aiuti sulla popolazione di Gaza. A metterci i pacchi stavolta saranno Francia, Germania e Gran Bretagna; gli ultimi due Paesi sono stati tra i più feroci sostenitori di Israele, votando contro le mozioni presentate all’ONU per la fine di ogni conflitto e continuando a inviare armamenti fino ai giorni scorsi.
Israele e USA dicono che le trattative non procedono, anche se Egitto e Qatar hanno qualche speranza. Intanto Axios riporta le dichiarazioni di un funzionario anonimo israeliano secondo cui Trump incoraggia Netanyahu a fare quello che deve fare con Hamas. La nuova strategia è un’intensificazione della guerra?
In realtà la stessa agenzia, una settimana fa, riportava fonti americane che dicevano esattamente il contrario, secondo le quali ogni volta che Trump parla con il premier israeliano ne esce convinto che sia un pazzo che fa quello che gli passa per la testa. Le affermazioni vanno verificate o almeno va ricordato che, mentre una certa fonte si esprime in un modo, ce n’è un’altra che dice il contrario; altrimenti succede che un’agenzia, in odore di servizi segreti americani e israeliani congiunti, nel giro di una settimana dica tutto e l’opposto di tutto.
Ciò che l’ultimo messaggio ci fa intuire è che israeliani e americani vogliano procedere con un’azione militare per occupare Rafah e spostare la popolazione verso sud, limitando intanto l’immagine devastante della gente senza cibo.
L’idea, quindi, è di fornire un po’ più di cibo ai palestinesi ma, allo stesso tempo, concentrarli per poi deportarli dai territori?
Sì. Poi bisogna vedere come procedono le trattative con Libia, Indonesia ed Etiopia per dare ai palestinesi la possibilità di trasferirsi. D’altro canto, i partiti che sostengono la coalizione del governo Netanyahu hanno già affermato che la trattativa non c’è più, non esiste, che il governo deve semplicemente annunciarne la conclusione definitiva.
La pausa tecnica per fare entrare i beni si sta traducendo in un ulteriore terrificante massacro: l’ingresso dei camion di aiuti, senza nessuna struttura di distribuzione (smantellate da Israele), sta provocando l’assalto di migliaia di disperati per cercare di prendere tutto quello che è possibile in questo. Anche il via libera al lancio degli aiuti dagli aerei la dice lunga su cosa si intende per aiuto umanitario.
Iniziative come il documento dei 28 Paesi che hanno chiesto la fine della guerra sono ancora troppo poco per far cambiare idea a Israele?
Israele non teme questo, ma il blocco degli armamenti e della capacità israeliana di controllare le decisioni nel Consiglio generale dell’ONU o nel Consiglio dell’Unione europea. Preoccupa, invece, il riconoscimento dello stato di Palestina annunciato dalla Francia, perché costituisce un problema per il futuro della Cisgiordania.
A Israele interessa impedire ogni nuova formula statuale, perché renderebbe evidente l’incompatibilità della politica israeliana, che porta all’annessione, con le posizioni di alcuni Paesi europei.
La trattativa è morta definitivamente? Significa che Israele potrà dar seguito alla soluzione militare e potrà procedere come vuole?
Penso che la trattativa sia fallita, ma questo non autorizza Israele a fare quello che vuole: un intervento politico da parte di USA o UE potrebbe rimettere in discussione tutto, innanzitutto i piani israeliani di deportazione di massa.
Israele non vuole Hamas, ma neanche USA, Europa e Paesi arabi: ci potrebbe essere una convergenza su una Palestina che non preveda la presenza di questa organizzazione. Oppure, di fatto, Hamas è difficilmente eliminabile?
Non siamo in presenza di una guerra ad Hamas, ma di una annessione dei territori palestinesi in Cisgiordania e di una deportazione dei palestinesi da Gaza. Se si vogliono deportare due milioni di persone, che c’entra Hamas? Questa è una delle domande cui UE e USA non rispondono. E il prezzo che si paga per la mancata risposta è il genocidio per affamamento.
Le società democratiche americana ed europea, secondo me, non lo accettano; per questo, per gli alleati di Israele si pone un problema politico. È diventato un problema di politica interna anche per l’Italia, basta guardare a tutte le iniziative della società civile, che attraversano tutti i partiti e anche la Chiesa cattolica. Papa Francesco aveva detto: “Non rassegnatevi, fate rumore”.
La gente lo sta facendo. Capita in Italia, Germania, Gran Bretagna; è una riflessione sui fondamenti degli stati democratici usciti dalla Seconda Guerra Mondiale.
(Paolo Rossetti)
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