Venerdì 17, sfortuna o fortuna? Storia, mito e superstizione della paura tutta italiana, tra numeri maledetti e riti scaramantici.
Venerdì 17, per gli italiani, suscita apprensione, forse paura. C’è chi, guardando il calendario, tosto procura di evitare commissioni, di rimandare un viaggio, di rinunciare a uscire di casa; e chi, magari, schernisce il destino e, per mostrare di non temerlo, si fa il segno delle corna — specialmente i più giovani — e si fotografa per pubblicarlo sui social.
Eppure la paura del venerdì 17 non è cosa moderna. È un archivio vivente di storia e di simboli; è una tradizione ravvivata, una superstizione che s’è mantenuta, tanto più che affonda le sue radici — direi — in tre terreni diversi: l’antica Roma, la filosofia greca e la tradizione cristiana.
Sulle lapidi romane si legge spesso la parola VIXI, cioè “ho vissuto”, che equivale a “ho cessato di vivere”. Basterebbe scrivere in cifre romane XVII, e anagrammandolo si otterrebbe il fatale presagio.
Da quel tempo il 17 è segnato dai caratteri della perdita, della fine e della morte stessa.

Anche i filosofi pitagorici, che tenevano in gran conto l’armonia dei numeri, guardavano con sospetto il 17, considerandolo un “numero impuro”, per così dire, posto scomodamente tra il 16 e il 18: l’uno perfettamente quadrato, l’altro perfettamente armonico. Un numero “spezzato”, dunque, che di per sé è fonte di inquietudine. A completare la tetra fama del numero contribuì il Libro della Genesi, dove il Diluvio Universale cominciò nel diciassettesimo giorno del secondo mese.
Ecco dunque il numero 17, simbolo, per tanti versi, di rovina divina.
Ma il numero, di per sé, non basta quasi mai. La potenza vera del mito si manifesta nel venerdì, giorno santo: giorno della Passione di Cristo, della caduta di Adamo ed Eva e del primo fratricidio, quello di Abele. E in un giorno già “pesante”, la saggezza popolare pone un’aggravante con un ammonimento senza appello: “Né di Venere né di Marte, non si sposa né si parte, né si principia all’arte”. Così il venerdì, giorno di lutto e di penitenza, e il numero 17 si incontrano, ed ecco la vittima.
Un fenomeno culturale di singolare originalità, degno di una civiltà che non ha pari: l’eptacaidecafobia, unicamente nostra, ovvero la paura del venerdì 17.
Scaramanzie, amuleti e altre “strategie di buona ventura”
La superstizione, in Italia, non si limita a un pensiero. È una pratica quotidiana, spesso più teatrale che religiosa. Il giorno funesto diventa un vero e proprio carnevale di riti difensivi: si fanno le “corna” contro la mala sorte, si “tocca ferro” (non legno, come altrove), si evita di far cadere per terra il sale; nel dubbio, si tiene in tasca un cornettino rosso o un ferro di cavallo.
In altre contrade la superstizione si è radicata a tal punto nella vita popolare da fondersi con l’ombra delle tradizioni e delle credenze, come nella città di Napoli, dov’è luogo comune l’arrendevolezza del napoletano verso simili idee, fulcro d’una superstizione che sa riderne, capace di andare d’accordo con l’ironia.
E non per nulla il 17 è associato, nella Smorfia napoletana, alla “Disgrazia”, e ciò contribuì a dargli una fama maggiore.
Che l’eptacaidecafobia non sia poi il frutto d’una leggenda infondata lo dimostrano i fatti, e quei fatti non portano sfortuna. In Italia è consuetudine che manchi il numero 17 nei numeri civici, laddove si passa dal 16 al 18; e in alcune stanze d’albergo il 17 è semplicemente omesso, quindi evitato. Non per fede, s’intende: per convenienza.
Com’è che altrove il venerdì 13 spaventa e inquieta, mentre da noi il 13 è considerato un portafortuna? Tredici sono le carte vincenti alla tombola della fortuna dei napoletani! Ecco il 17, suo oscuro gemello: un segno d’identità nazionale tanto radicato da superare, sopra e sotto, i fenomeni di moda e di costume.
E così accade che taluni, ridendo, si stringano malvolentieri la mano e, per prudenza, tocchino ferro. Non si sa mai…
