Ieri Trump ha mandato un pesante avviso a Putin: “gravi conseguenze” se non fermerà la guerra. Ecco come entrambi si presentano al summit in Alaska
Siamo al 14 agosto 2025. A poche ore dal vertice in Alaska tra Donald Trump e Vladimir Putin, considerato da molti come un passaggio potenzialmente in grado di ridisegnare gli assetti globali, il dibattito internazionale si concentra su possibili conseguenze in Ucraina, in Europa e persino nel Caucaso.
Marco Bertolini, generale della Brigata Folgore e comandante di numerose operazioni speciali in Libano, Somalia, Kosovo e Afghanistan, analizza il quadro con un approccio che rovescia molte narrazioni correnti: per lui, l’Ucraina è il terreno di un duello fra Washington e Mosca, l’Europa paga scelte strategiche errate, e Trump agisce più da negoziatore commerciale che da leader militare.
Lo abbiamo intervistato per capire quali scenari potrebbero aprirsi già nei prossimi giorni.
Generale Bertolini, lei ha affermato che la guerra in Ucraina è, fin dall’inizio, un confronto sostanzialmente fra Stati Uniti e Russia. In cosa si traduce questa lettura?
Significa che non si tratta di un conflitto regionale. È uno scontro diretto fra due potenze, cominciato già ai tempi delle primavere arabe, quando furono minati gli interessi russi in Nordafrica e Medio Oriente. Da lì si è aperta una partita più ampia, con Trump che, anche prima di questo vertice, ha mostrato un attivismo capace di scompaginare l’Europa. In sostanza, il teatro ucraino è solo la superficie di una contesa globale.
In altre parole, sul terreno si combatte per assetti planetari, oltre che per i confini ucraini?
Esattamente. Trump stesso ha definito questo conflitto “la guerra di Biden”, non la sua. Una guerra voluta dalle amministrazioni democratiche statunitensi, iniziata con Obama e proseguita da Biden. L’esito militare a favore della Russia, a chi ha occhi per vedere, era prevedibile sin dall’inizio, per ragioni diverse, sia per Washington che per Mosca si tratta di una questione esistenziale. In questo contesto, Trump ha introdotto una novità.
Quale?
Il presidente americano sembra riconoscere che la partita sul campo è persa e che occorre aprire un varco negoziale.
Dunque il vertice in Alaska potrebbe segnare una svolta reale?
È possibile. Non nel senso di un avvicinamento amichevole alla Russia, ma di un approccio diverso: Trump tende a considerare la politica estera come estensione dell’economia. Per lui dazi e finanza sono strumenti di pressione e di scambio politico, e in questo contesto può preferire una tregua strategica a un conflitto a oltranza.
In questi giorni di febbrili consultazioni l’Europa appare schiacciata. Come valuta la sua posizione attuale?
L’Europa si è esposta in modo eccessivo, spinta da un’illusione di vittoria rapida. Ha adottato sanzioni durissime, accettato costi energetici elevatissimi, investito capitale politico e militare, perfino in iniziative simboliche come il boicottaggio culturale e sportivo. Oggi ne paga il prezzo in termini di competitività, autonomia e credibilità.
Ma qual è la causa a monte di queste scelte, e quindi di questo impasse?
L’ho definita “sindrome di Stoccolma”: a Bruxelles hanno fatto propria una guerra decisa altrove, cioè a Washington, e ora non riescono a liberarsene. Nel 2022 l’Unione Europea si è convinta che la sconfitta della Russia fosse ineluttabile e ha agito di conseguenza. Oggi è di fatto parte in causa, pur non avendo dichiarato guerra, e vede che le prospettive si stanno chiudendo.
Lei ha definito Trump “un commerciante”. Qual è la logica dietro questa definizione?
Trump privilegia il ritorno economico sugli obiettivi ideologici. Ha deciso di usare i dazi come leva per finanziare la reindustrializzazione americana da altri Paesi – Giappone, Sud Corea, Europa – attraverso acquisti di armi e investimenti. Quando le risposte non sono state all’altezza, ha alzato la posta. Non vedo in lui l’intenzione di avventurarsi in conflitti militari in Europa; piuttosto, preferisce che altri continuino a combattere comprando forniture statunitensi.
Domani ad Anchorage Trump e Putin entreranno nel merito della trattativa. Lei ha parlato di “concessioni territoriali inevitabili”. Quanto è concreta questa ipotesi?
Molto. Ed è facile capire perché. Se gli Stati Uniti si sfilano dal supporto di intelligence, dagli aiuti militari e persino dai finanziamenti alla macchina amministrativa, l’Ucraina non avrà i mezzi per continuare. Per Zelensky sarebbe un colpo letale anche sul piano politico interno, con il generale Zaluzhny che potrebbe emergere come alternativa, forte di legami con l’Europa e soprattutto con Londra.
E se il vertice Trump-Putin non producesse accordi concreti, come l’auspicato cessate il fuoco?
In questo caso, Putin potrebbe ribadire la richiesta di neutralità ucraina, cioè la non adesione di Kiev alla NATO, e consolidare le conquiste territoriali, includendo il Donetsk che attualmente è ancora conteso, ma dove le forze russe stanno guadagnando rapidamente terreno.
Non ci sarebbero grandi differenze rispetto a quanto abbiamo visto finora.
Ma avverrebbe dopo un attesissimo vertice tra Stati Uniti e Russia. Sarebbe un modo per trasformare l’attuale linea del fronte in una frontiera politica, con un impatto diretto sulla credibilità statunitense e sul ruolo europeo.
(Max Ferrario)
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