ALESSANDRO D’AVENIA/ La bellezza salverà l’uomo, anche chi non crede: è Cristo l’antidoto alla noia

- Niccolò Magnani

Alessandro D'Avenia: da Leopardi a Dostoevskij, passando per i giovani e la vocazione: "la bellezza salverà l'uomo, anche chi non crede. È Cristo l'antidoto alla noia"

giovani_meeting_rimini_2017 Giovani, fede e vocazione

Il professore “dei giovani”, l’amante della bellezza e lo strano caso di un cattolico che a grandi e piccini continua a ripetere che la bellezza di Cristo salverà il mondo: Alessandro D’Avenia in una recente intervista a Famiglia Cristiana ha voluto raccontare il suo percorso dai libri alla esperienze in classe a scuola – è uno scrittore ma anche un professore di lettere in un liceo milanese – con Giacomo Leopardi come “fil rouge” del rapporto tra la fragilità umana e la salvezza divina. «L’arte di essere fragile», il titolo dell’ultimo romanzo di D’Avenia dedicato proprio al poeta di Recanati. «Il libro nasce dall’aver sentito nella mia vita e nelle persone che incontro tutti i giorni questa fragilità che il tempo di oggi ci costringe a riconsiderare. Proprio perché è un tempo rapido, veloce, in cui bisogna essere bellissimi perché tutto è basato sul risultato, noi abbiamo un bisogno folle da ritrovare». Un bisogno espresso da D’Avenia con lo stesso primato del cristianesimo, «il primato della persona»: per lo scrittore siciliano e allievo di Don Pino Puglisi, i tempi di oggi sono difficili ma non più di altri momenti della storia. Tira dunque le orecchie ai “catastrofisti” secondo cui il mondo di oggi è destinato a sparire per la troppa violenza umana: «Sembra che crolli un mondo, in realtà è semplicemente un mondo che ci sta trasformando. Io mi sono detto: siamo sicuri che se va in crisi l’esteriorità deve andare in crisi anche l’uomo? Non sarà che c’è un elemento da rafforzare?». Secondo il professore è proprio l’elemento esaltato dal cristianesimo, quell’elemento vocazionale che c’è dentro ognuno di noi a riavere un’esigenza vitale e urgente nel cuore dell’uomo. « Michelangelo nel suo Giudizio universale ci ha raccontato che Dio chiama l’uomo con un tocco e sulla punta del dito di Adamo segna la sua originalità, cioè la sua origine e anche il suo futuro. Oggi siamo immersi in un mondo digitale e abbiamo risolto quel contatto nel contatto col nostro cellulare».

IL GENIO DI LEOPARDI

Spesso si cade nel tranello della cultura “di massa” che considera Leopardi, se proprio va bene – cioè quando non viene sottodimensionato come “poeta triste e depresso” – un autore capostipite di quel laicismo che da non credente ha voluto affermare nel suo grido di ribellione al cielo. Ecco, D’Avenia entra in completa “gamba tesa” su questa testi e rilancia il genio leopardiano: « Leopardi non è il simbolo del laicismo, ma della laicità. È un uomo che ha approfondito fino in fondo tutti i campi del sapere alla ricerca della verità. Questo riguarda ogni uomo, credente o no che sia. Io in Leopardi ho trovato un gradino fortissimo, direi granitico, di questa ricerca. Lui, come nel mondo greco, è convinto di un fatto: che la bellezza sia sempre la manifestazione del vero e del buono messi insieme e che bisogna indagare per andare a capire quali sono questo vero e questo buono». Un ponte, un rapporto che credenti e non credenti potrebbero guardare per ritrovare quell’unione perduta, quel senso di infinita fragilità di fronte all’ignoto e il mistero della vita: questo potrebbe essere Leopardi, secondo D’Avenia, altro che “laicista”. «Credo che Giacomo Leopardi sia l’uomo grazie al quale credenti e non credenti possono parlarsi andando alla ricerca di senso. Perché c’è una religione della bellezza che tutti possiamo accettare e creare che ci accomuna tutti. Se poi ci porterà a trovare Dio, per me tanto meglio. Altrimenti avremmo fatto qualcosa di bello al mondo, come dice lui stesso».

IL CRISTIANESIMO COME ANTIDOTO ALLA NOIA

Famiglia Cristiana rivolte poi un’ultima e decisiva domanda al professor-scrittore tanto amato dai giovani: «come fai a credere in Dio e come lo spieghi ai tuoi studenti?». La risposta lascia come spesso accade con D’Avenia, stupefatti perché non si risolve in una definizione o in un trattato di teologia-morale. Molto, ma molto più semplice: «Noi oggi pensiamo che la parola vocazione riguardi una specie di chiamata che viene dall’esterno e aggiunge qualcosa alla nostra vita. Niente di più sbagliato. La vocazione è la vita. Se entriamo in questa prospettiva, che Dio – fuori dal tempo – prima ha pensato a ciascuno di noi e poi ci ha dato l’essere per realizzare quel progetto, il gioco è fatto». La semplicità, intendiamoci, non significa la “facilità” di riconoscere che la propria vita è religiosa vocazione: i passi, gli incontri, e le fatiche del vivere quotidiano sono sempre dietro l’angolo e non si possono “eliminare” per arrivare alla “risposta ultima” bypassando la vita stessa. D’Avenia lo illustra bene quando ricorda che «Questa chiamata, certo, avviene per un essere che è fragile. Ma è anche l’invito a fare qualcosa di bello, trasformare quello che potrebbe sembrare un destino in destinazione, in una fioritura, in un’opera d’arte». In questo senso, da Leopardi fino a Dostoevskij – colui che ricordiamo diede carne al genio de “la bellezza salverà il mondo” – l’esperienza vocazionale e religiosa di Alessandro D’Avenia si “applica” al semplice insegnamento quotidiano con i suoi studenti, dove lo scrittore ammette: «Più vado avanti più mi rendo conto di questo. Dio non è una cosa che si aggiunge alla vita, è la vita stessa che fiorisce. Se penso a questo, dico: Dio, io senza di te non posso stare. Nel cristianesimo ho trovato l’antidoto per la noia. L’unico che io conosco. Una vita che è affidata totalmente a te e totalmente a Dio».







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