FINANZA/ Le “case Tremonti” contro la logica di Wall Street

- Gianni Credit

GIANNI CREDIT parla del piano di edilizia sociale nazionale diretto dal ministro dell'Economia, che avrà come protagonisti investitori della società civile, in  primis le fondazioni bancarie, secondo un'ottica sussidiaria e federalista 

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E’ per certi versi sorprendente che l’incremento al 7,5% della quota di partecipazione libica in UniCredit abbia fatto molto più notizia, nell’ultima settimana, della virtuale chiusura della fase di lancio del piano nazionale di edilizia sociale. L’arrotondamento dello 0,5% del pacchetto congiunto detenuto dalla Banca centrale libica e dal fondo sovrano Libyan Investment Authority vale sul mercato meno di 200 milioni di euro e ha segnato, pur nelle nuove dimensioni globali del dopo-crisi, un’ulteriore avanzata della mano pubblica nella proprietà delle mega-banche sistemiche.

Meno eco ha avuto invece l’impegno delle principali Casse previdenziali italiane (una ventina) a investire 300 milioni nel nuovo fondo di social housing promosso dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Poco prima del summit al Tesoro, anche le Assicurazioni Generali avevano deliberato l’adesione con 100 milioni a quello che è di fatto un “fondo sovrano domestico”: ormai quasi interamente sottoscritto nella cifra obiettivo di 2,5 miliardi.

L’investimento più sostanzioso sarà da parte della Cassa depositi e prestiti (70% Tesoro e 30% fondazioni bancarie) che metterà un miliardo. La Cdp è anche l’azionista di controllo (70%) della società di gestione del fondo, che sarà partecipata al 15% a testa anche da Abi (banche) e Acri (fondazioni). Altre quote del fondo sono state prenotate da Intesa Sanpaolo e UniCredit (250 milioni a testa), Ministero delle infrastrutture (150), Allianz (100 milioni come Generali): interventi minori si accolleranno Montepaschi, Banco Popolare e Ubi banche (che completano il quintetto delle grandi banche italiane). E ora 300 milioni da parte delle Casse privatizzate, pur con qualche mugugno legato all’oggettivo scambio maturato con il Governo (vincoli meno stretti sulla gestione dei patrimoni).

Difficile che questo “tesoretto” rimanga sepolto, com’è invece tuttora per quello del Fondo infrastrutture (sempre di riserva per lo scorporo della rete Telecom). Anzi: già prima della fine dell’anno è altamente probabile che il primo progetto prenda forma a Parma. Non sarà del resto una prima assoluta: il prototipo della moderna iniziativa “sussidiaria” nell’edilizia sociale è il Progetto Villaggio Barona lanciato a Milano dalla Fondazione Cariplo.

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Il Comune mette a disposizione un’area (con diritto di superficie, ma in un altro piano promosso a Crema la destinazione è stata gratuita), la Fondazione aggrega con logica di mercato altri investitori interessati a un rendimento di lungo periodo (2-3% all’anno) e promuove la costruzione di quartieri destinati a giovani coppie, studenti, immigrati, altri soggetti che esprimono una domanda di edilizia sociale.

 

Tre fasce di canone per 650 appartamenti e un modello di “leva finanziaria” diversa da quella di Wall Street: sono le Fondazioni a mettere il capitale di base e ad attirare banche, assicurazioni, altri operatori immobiliari e proponendo poi un intervento sussidiario all’ente pubblico. Ora Tremonti vuol replicare il modello su scala nazionale, ma non necessariamente “centralista”: saranno le fondazioni stesse a dare un’impronta federalista facendo da network territoriale per le iniziative. E lo strumento-chiave sarà il fondo immobiliari dedicato (come “Abitare Sociale 1” di Polaris, la Sgr della Cariplo): una forma d’investimento teoricamente appetibile per chiunque sul mercato.

 

Certamente Tremonti e il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti si misurano con un precedente storico di rilievo assoluto: le leggendarie “case Fanfani” che il leader Dc del dopoguerra concepì nel cuore della ricostruzione. Dal 1949 il veicolo del governo italiano fu l’Ina, la compagnia d’assicurazione statale. L’obiettivo “sociale” era duplice: edificare in fretta alloggi popolari (favorendo tra l’altro i flussi migratori interni che già si annunciavano verso le aree metropolitane) e creare occupazione.

 

Il risultato fu imponente: in 14 anni vennero costruiti 2 milioni di vani per 355mila alloggi. Ebbero lavoro 41mila operai edili all’anno, il 10% dell’intera forza lavoro nazionale nel settore. Ma lavorarono anche le grandi firme dell’architettura nazionale, a cominciare dallo Studio BBPR che in quegli stessi anni progettò a Milano la Torre Velasca. Naturalmente era un intervento “keynesiano“ puro: tutto Stato, quasi niente mercato. Più di mezzo secolo dopo la palla dell’edilizia sociale torna a uno Stato che riparte dalla sussidiarietà e a un mercato che deve far dimenticare in fretta un tragico gioco di prestigio: regalare la casa a tutti con i mutui subprime.





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