FINANZA E POLITICA/ Bankitalia e il boomerang della “riforma anti-Fazio”

- Gianni Credit

Cosa sta succedendo in Via Nazionale? La Banca d'Italia è sempre più nervosa. Mps e Bpm, ora Carige e Banca Marche: il dossier-Vigilanza si appesantisce… GIANNI CREDIT

ignaziovisco_sinistraR439 Ignazio Visco (Infophoto)

La Banca d’Italia è sempre più nervosa, ma bisogna capirla. Mps e Bpm, ora Carige e Banca Marche: il dossier-Vigilanza si appesantisce e lo standing di Via Nazionale si abbassa in proporzione. E tutto questo proprio alla vigilia del delicatissimo passaggio alla supervisione bancaria europea. Ma da qualche settimana c’è dell’altro. L’Abi di Antonio Patuelli preme frontalmente – sul governo, cioè sopra la testa del governatore Ignazio Visco – per la rivalutazione delle quote detenute dalle banche nell’istituto centrale. E sempre più al fianco dei banchieri, alcuni ambienti imprenditoriali si mostrano apertamente insoddisfatti di come Palazzo Koch sta gestendo in casa la ri-regolazione bancaria post-crisi – in particolare Basilea 3 – sul fronte credit crunch.

Il “piano Bankoro” – ri-presentato sul Sole 24 Ore da due firme emerite come Alberto Quadrio Curzio della Cattolica e Fulvio Coltorti di Mediobanca – ha nuovamente toccato un nervo scoperto. Cosa sta facendo, cosa può fare Bankitalia per la ripresa, a parte riciclare meccanicamente ricette e regole decise altrove? E perché Via Nazionale continua a tenere sotto chiave decine di miliardi di riserve auree, che tra l’altro non sono sue ma del Tesoro, “della Repubblica”? L’aria sta in ogni caso cambiando se sulla prima del Corriere della Sera post-montiano, nel weekend di Cernobbio, si legge in un titolo: “Gli errori della Ue”. Ma come: non è stata proprio la Ue, appena due anni fa, a imporre Mario Monti per correggere gli errori, i peccati mortali di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti? E a dettare la linea non c’era forse il super-governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, già proiettato verso una delle più strategiche cabine di regia europee?

Non c’è quindi da stupirsi se il neo-direttore generale Bankitalia, Salvatore Rossi, sia dovuto uscire allo scoperto on-the-record, nel tentativo di calmare un po’ le acque. Ma nel farlo non ha potuto che confermare che attorno a Bankitalia le acque restano agitate. All’assemblea Abi dell’11 luglio Patuelli aveva sollecitato con forza la ripresa accelerata delle riflessioni sul capitolo lasciato in sospeso della riforma Bankitalia del 2005: il riassetto proprietario dell’istituto. E il ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni – fino all’aprile scorso direttore generale in Via Nazionale – aveva dato cenni d’assenso, facendo salvo il coinvolgimento della stessa Bankitalia e il coordinamento con la Bce. Ma non era noto in dettaglio ciò che è avvenuto dopo: ci ha pensato Rossi a rivelarlo (preoccupato dall’accelerazione?).

Nel mezzo dell’estate, il governo ha dunque chiesto a Via Nazionale un “parere” sul valore patrimoniale dell’istituto. Il parere è ora in via di elaborazione con l’ausilio di un gruppo di esperti italiani e internazionali (i cui nomi rimangono per ora riservati) e sarà pronto in tempi brevi: par di capire entro il calendario di messa a punto della legge di stabilità. Il governo, quindi, sembra fare sul serio e i motivi sono del resto intuibili (su ilsussidiario.net ne abbiamo già accennato).  

Una rivalutazione pilotata per alcuni miliardi di euro del capitale Bankitalia ripartito nei bilanci delle banche produrrebbe almeno un paio di effetti strategici.

Il primo è atteso sul terreno della politica creditizia: rivalutare le partecipazioni bancarie in Bankitalia significa rafforzare i loro coefficienti patrimoniali, sempre premuti – anzi talvolta penalizzati e discriminati – da Basilea 3; e quindi migliorare la capacità di credito del sistema (è questo il cuore dell’appello Abi). Il secondo obiettivo sarebbe “tout court” di politica finanziaria: sulla rivalutazione le banche verserebbero immediatamente all’Erario un’imposta straordinaria sostitutiva commisurata alla rivalutazione nell’ordine minimo del 20 per cento. Letteralmente oro per il disperante budget 2014 del governo Letta.  

L’apparente partita win-win,  di sistema-Paese fra governo e banche non sembra però piacere alla Banca d’Italia. È comprensibile anzitutto, la frustrazione di un’istituzione da sempre abituata a essere “soggetto” e non “oggetto” sullo scacchiere politico-finanziario. In secondo luogo, Bankitalia e il governatore Visco in prima persona sono il pezzo di Azienda-Italia che sente in assoluto di più sul collo il fiato dell’Europa: Draghi − incaricato di raddoppiare il suo potere di guardiano dell’euro con i gradi di super-carabiniere delle banche in Europa − è ancor più soggetto alla sindrome del “primo della classe”. E una Bankitalia cedevole verso politici e banche è l’esatto contrario di quanto gli serve per costruire autorevolmente l’Unione bancaria. Ma non c’è dubbio che le angosce di Via Nazionale nascono anzitutto dalla consapevolezza che “l’ordine bancario” nazionale in vigore da quasi ottant’anni (riforma bancaria del ’36, post-crisi del ’29) stavolta è davvero in discussione.

Forse anche per questo Rossi ha usato insolitamente taglienti, liquidando come “artifici contabili” le proposte via via emerse e chiedendo una non meglio precisata “vera riforma”. Ma il tentativo di spezzare l’assedio alzando la palla nell’empireo delle grandi riforme cela a fatica una difesa imbarazzante. Sì, perché la “vera riforma” di cui parla Rossi è appena stata fatta: nel 2005. E attende ancora di essere attuata proprio nel capitolo in cui afferma – con chiarezza – che la proprietà della Banca d’Italia (se non l’intera costruzione del suo bilancio) va riordinata. E se finora ciò non è avvenuto è accaduto proprio per la lobbying conservatrice della Banca d’Italia attorno a uno “status quo” messo strumentalmente in discussione dalla Banca d’Italia più auto-referenziale soltanto per liberarsi di Antonio Fazio, classico “compagno che ha sbagliato”. Vogliamo ricapitolare velocemente?      

Nel 2005 la Banca d’Italia di Antonio Fazio è schierata dietro la controffensiva “nazionale” guidata dalla Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani su AntonVeneta, Bnl e Rcs. La falange degli accademici globalisti (Francesco Giavazzi, Guido Tabellini, Tito Boeri, Luigi Zingales, etc.) inventa a tavolino ad uso dei grandi giornali “legittimisti” la questione della proprietà e dell’indipendenza della banca centrale: che in Italia sarebbe “catturata” dalle sue banche, vigilate ma anche azioniste. L’argomento è storicamente privo di qualsiasi fondamento: proprio il dirigismo autoritario di Fazio sta a dimostrare in quei mesi (ma era accaduto anche su Mediobanca-Generali nel 2002) che il sistema bancario è al massimo strumento anomalo della Vigilanza, mai “dominus” di Via Nazionale. 

Ma non importa: nella battaglia all’ultimo sangue che porta infine Fiorani e Stefano Ricucci in carcere, Fazio alle dimissioni e poi a una doppia condanna, AntonVeneta all’Abn Amro (e poi a Mps) e Bnl a BnpParibas, chiunque gioca qualunque carta. Ed è così che la legge 262 − che in realtà è solo la scure per decapitare Fazio e la passerella per chiamare Draghi dalla Goldman Sachs in Bankitalia – definisce anche il codicillo partorito dalla fantasia dei “professorini”. È il comma 10 dell’articolo 19: “Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici”.

Nulla di quanto qui previsto dalla legge “anti-Fazio” è naturalmente accaduto: allo scadere dei tre anni altri professorini hanno provato a liquidare per sempre la questione catalogando il termine come “meramente ordinatorio” (indicativo). Ma due mesi fa è a questa norma che ha fatto riferimento Patuelli, quando tutti (soprattutto in Bankitalia) speravano fosse sepolta e dimenticata per sempre. Il presidente dell’Abi è tornato a spezzare una lancia sulla “dubbia costituzionalità” dell’ipotesi di “nazionalizzazione” della Banca d’Italia. Ma lo ha fatto per perorare la propria causa – la rivalutazione delle quote di capitali – che va esattamente a riaprire la piaga artificialmente creata dai professorini nel 2005: il legame a monte fra banche vigilate e Bankitalia. E in Via Nazionale, evidentemente, il dente duole parecchio, al di là delle ovvie garanzie di autonomia riconosciute dalla legge – anche quella del 2005 – alle funzioni di vigilanza creditizia.  

L’effetto-boomerang della legge 262, tuttavia, ha una storia i cui contorni kafkiani meritano di essere sintetizzati alla vigilia di un probabile momento risolutivo. Principale supporter della “vera riforma” della proprietà Bankitalia, diventa subito Giulio Tremonti: ministro dell’Economia alla fine del Berlusconi 2 e di poi nuovo in Via XX settembre a partire dal 2008. Tremonti non fa mai mistero del suo favore per una legge che, nei fatti, conduce alla statalizzazione della proprietà della Banca d’Italia o a soluzioni che facciano entrare in gioco le Fondazioni (con cui Tremonti aveva infine raggiunto un armistizio) o l’astro allora nascente della Cassa depositi e prestiti.

Altrettanto ovvio – ma politicamente ai limiti del comico – è che ad essere terrorizzati dalla prospettiva di cambiamento siano coloro che quel cambiamento hanno fortemente promosso: a cominciare da Carlo Azeglio Ciampi, l’ex governatore divenuto presidente e garante ultimo dello “strappo” del 2005 a danno di Fazio e a favore di Draghi. Per non parlare del nuovo governatore, oggi presidente della Bce: certamente lettore divertito di articoli sulla “valutazione di mercato” di una banca centrale (quella del Giappone è addirittura quotata in Borsa), ma difensore tenace dello “status quo” nel quale i “signori partecipanti” a un capitale di 136 milioni di vecchie lire, avevano come unico diritto quello di leggere una breve e irrilevante replica alle Considerazioni finali del 31 maggio. 

Resta il fatto che perfino la laboriosa successione a Draghi – con il braccio di ferro Tremonti-Draghi sulle candidature contrapposte di Vittorio Grilli e Fabrizio Saccomanni e con il compromesso (al ribasso) su Visco – è figlia del vaso di Pandora scoperchiato nel 2005 sulla proprietà della banca centrale. Carta che ora viene presa in mano dall’Abi perché è già sul tappeto: ce l’hanno messa i professorini “draghiani” ed è perfino finita in una legge.

Come se non bastasse, due nomi del calibro di Quadrio Curzio e Coltorti (chief-economist e archivista di Enrico Cuccia) insistono nelle ultime settimane su un dossier solo apparentemente laterale. La mobilizzazione delle riserve auree Bankitalia – pur attraverso uno schema di veicoli e di finanza “derivata” – va a  parare comunque sul cambio di proprietà della banca centrale: le cui quote di capitale verrebbero controllate da una Sgr controllata dal Tesoro (benché gli autori parlino con cautela di un “buyback nazionale” del capitale Bankitalia).

Delle due, comunque, apparentemente l’una: o lo “status quo”, marcato tuttavia da una (nominale) affermazione delle banche come “azioniste” Bankitalia e da una (non nominale) manovra di vigilanza sui patrimoni delle banche vigilate; oppure un sacrificio “keynesiano” delle riserve auree a fini di politica economica, accompagnato da una statalizzazione nominale delle proprietà Bankitalia. Ovvio che ora Via Nazionale recalcitri, forse già ai limiti della disperazione. Comunque vada a finire (magari con nuovi rinvii) bisognava pensarci prima. Prima che Carlo Azeglio Ciampi cedesse alla tentazione politica del primo premierato tecnico nel ’93 (è lì che nasce il primo governatorato di mediazione affidato a Fazio, bruciando la successione programmata di Tommaso Padoa-Schioppa). Prima di buttar via il bambino (Bankitalia) con l’acqua un po’ surriscaldata (Fazio) che chissà se poi era sporca per davvero. Prima di lasciare che Draghi utilizzasse Via Nazionale per cinque anni come parcheggio personale fra gli uffici Goldman Sachs di Londra e quelli Bce a Francoforte, disinteressandosi del sistema bancario nazionale e del ruolo istituzionale di Palazzo Koch.





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