TERRA SANTA/ Il coraggio della pace può ancora vincere la guerra

- Augusto Lodolini

La guerra a Gaza sembra mettere in discussione il valore dello storico incontro di giugno a Roma, ma per AUGUSTO LODOLINI ciò è vero solo se non si è capito il suo vero significato

israele_gerusalemme1R400 Immagine di archivio

Poco più di un mese dopo lo storico incontro a Roma di Papa Bergoglio con Abu Mazen, Simon Peres e il Patriarca Bartolomeo, le armi hanno ricominciato a seminare morte in Terra Santa e molti si sono interrogati sull’utilità di quell’incontro. Lo stesso Papa qualche giorno fa ha posto la domanda e ha risposto che l’incontro non è “avvenuto invano”, che “la preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male né a rassegnarci a che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione.

Papa Francesco ha giustamente sottolineato il carattere religioso dell’incontro, il cui valore per molti rimarrà “simbolico”. Hanno ragione, il suo valore ultimo è simbolico, ma con il significato che simbolo ha per noi cristiani: il punto di unità di tutto, per cui definiamo Simbolo della Fede la nostra professione di fede, il Credo.

Simbolo, etimologicamente “ciò che unisce” e quell’incontro è stato un segno, forte, di unità, tra le tre religioni monoteiste, tra Occidente e Oriente cristiano, tra Roma, Costantinopoli e Gerusalemme. E’ stato anche il segno che questa unità è possibile, perché i due presidenti, israeliano e palestinese, al di là dei loro sentimenti personali, rappresentavano due popoli da decenni in guerra ora riuniti in preghiera per quella pace che non riescono a raggiungere da soli.

Il loro abbraccio non è stato solo uno show diplomatico, ma ha ufficializzato, diciamo così, i tanti punti di incontro reale che i loro popoli riescono a creare, nonostante tutto. Si pensi all’abbraccio tra i parenti del ragazzo israeliano ucciso e del ragazzo palestinese così barbaramente trucidato, o i momenti di preghiera che gruppi di ebrei e musulmani hanno organizzato durante questa ennesima crisi.

Simbolo ha etimologicamente un suo opposto, ciò che divide, che separa: diavolo. E il diavolo non ha perso tempo per scatenarsi nel tentativo di cancellare la pericolosità, per lui, di quell’incontro, utilizzando uno degli strumenti che più gli son utili: l’ideologia, la negazione o la riduzione della realtà. Quell’incontro tra persone è diventato uno scontro tra partiti, la divisione ha ripreso il sopravvento sull’unità.

Certo, chi ha visto quell’incontro esclusivamente sotto l’aspetto politico non aveva alcun dubbio sulla sua scarsa utilità. Il presidente palestinese non ha alcuna influenza su Hamas e ha problemi gravi anche all’interno della sua organizzazione, Fatah. Simon Peres è al termine del suo mandato e due giorni dopo l’incontro la Knesset ha scelto il suo successore. In altri termini, non erano in grado di determinare le decisioni dei loro due popoli, come i fatti hanno poi dimostrato, ma sia Hamas che Netanyahu avrebbero quasi certamente rifiutato di partecipare all’incontro a Roma.

La maggior parte dei commenti a ciò che sta avvenendo a Gaza sembra essere del tipo “ci risiamo”, una ennesima, tragica puntata di questa lunghissima incompiuta che è la pace in Terra Santa, come se non ci si rendesse conto che la situazione è decisamente cambiata rispetto al passato. Per decenni la resistenza armata palestinese allo Stato di Israele è stata di tipo laico e socialista, sia pure alla mediorientale, e il conflitto ha fatto parte del più generale scontro tra Occidente e Unione Sovietica.

La fine della Guerra Fredda non ha portato la pace in Palestina, ma Fatah, che quella lotta ha condotto, rappresenta ora la parte moderata del movimento palestinese, disposta a riconoscere lo Stato di Israele in cambio di un proprio Stato. Hamas, invece, continua a combattere Israele e, di fatto, anche Fatah, cacciata con la violenza dalla Striscia di Gaza.

Questa posizione, tuttavia, è conseguenza di un altro fatto che il secolarizzato Occidente tende a sottostimare, mettendo tutto sotto l’etichetta di terrorismo. Anche Fatah ha usato il terrorismo, così come l’hanno usato gli ebrei all’inizio della storia dello Stato di Israele, ma i primi volevano costituire uno Stato palestinese socialista, così come socialisti erano i sionisti.

Hamas è un movimento islamico fondamentalista, come lo sono Hezbollah e Isis, come lo è la dirigenza iraniana. Il nemico comune di questi, pur differenti, movimenti è l’Occidente cristiano/giudaico, per combattere il quale possono anche allearsi sciiti e sunniti, che altrove si scannano tra loro.

La radicalizzazione non è avvenuta solo in campo musulmano, perché anche Israele sembra allontanarsi sempre più dal modello iniziale sionista, con le posizioni religiose estremiste sempre più influenti sui governi attuali di destra. Il continuo espandersi degli insediamenti in territorio palestinese, la definizione di Stato ebraico, la crescente intolleranza verso altre religioni, non avvicinano certo le prospettive di pace.

Abu Mazen non ha potuto fermare Hamas, Peres terminerà il suo mandato alla fine di questo mese e si dice che il suo successore Reuven Rivlin, sia molto vicino ai coloni e non veda con simpatia la costituzione di uno Stato palestinese. I “ falchi” stanno prendendo il sopravvento in entrambi i campi e per loro la viltà della guerra è più facile del coraggio della pace.

Ritorna l’invocazione di Papa Francesco: “Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace… Rendici disponibili ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono“. Una preghiera rivolta a tutti noi e che tutti dovremmo fare nostra.





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