DE ANDRE’/ 1. La smisurata preghiera di un’anima salva

- La Redazione

A dieci anni dalla scomparsa del cantautore genovese, Valerio Pece offre una riflessione sulla sua opera, simbolicamente racchiusa da due brani (Preghiera in gennaio e Smisurata Preghiera) e sulla sua vita, spesa al di là delle etichette e dei luoghi comuni

DeandréR375_080109 Fabrizio De André

La mattina dell’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De André. Dal suo primo album, “Volume I”, all’ultimo, “Anime salve”, passano 28 anni, 15 album e 128 canzoni.
La prima porta il titolo di Preghiera in gennaio, l’ultima, Smisurata preghiera. La vita artistica del cantautore è racchiusa tra due preghiere, di cui la seconda è in crescendo, smisurata. Solo una suggestiva casualità o qualcosa di più? La prospettiva religiosa, nell’arte del cantautore genovese, è una pista da battere a fondo; il rischio è quello di scorgervi perle di rara bellezza (e veder cadere molti luoghi comuni).
Per De André le etichette si sono sprecate: ateo, agnostico, animista, anarchico. Basterà però ricordare quello che De André disse e cantò: servirà per aprire gli occhi sull’appassionata ricerca del vero che ha accompagnato la vita del grande poeta. «C’è chi è toccato dalla fede – scriveva De André – e chi si limita a toccare la virtù della speranza (…), il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare, è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni». È proprio la categoria della Speranza, da lui stesso definita virtù, quella che meglio esprime il profilo religioso del cantautore. Ettore Cannas, nel suo bel libro “La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De André” (ed. Segno), con un’accurata indagine statistica, ha catalogato i termini contenuti nei testi di De André. I risultati sono interessanti. Si scopre che i quattro termini più utilizzati dal cantautore nell’intera sua produzione sono: “Dio/Signore”, “Amore”, “Cielo” e “Vento”; questi ultimi utilizzati sovente in senso metafisico (vento è spesso usato nel significato biblico di ruah, il soffio dello Spirito). La terminologia politica, poi, è quasi del tutto assente (Cannas fa notare che mancano del tutto termini quali “borghesia”, “ribellione”, “anarchia”, “dittatura”, “fascista,” “marxista”, “operaio”, “politica”, “proletario”).
In un’intervista al Corriere della Sera del 13 gennaio 1999, due giorni dopo la morte del cantautore, Enrica Rignon, la sua prima moglie, alla domanda su chi aveva deciso per De André le esequie in chiesa, appare stupita: «Fabrizio e io ci siamo sposati in chiesa. Negli ultimi dieci anni sono scomparsi i suoi genitori e suo fratello e tutti hanno avuto funerali religiosi. Perché mai lui non avrebbe dovuto volerlo? Fabrizio era contraddittorio, non incoerente». Poi, più confidenzialmente, aggiunge: «Un anno e mezzo fa ho subito un’operazione al cuore: Fabrizio, Dori e mio figlio Cristiano mi sono stati molto vicini. E Fabrizio mi diceva: “Non ti preoccupare che andrà tutto bene, io ti ricordo tutte le sere nelle mie preghiere”».
Nell’intervista Enrica Rignon ribadisce ciò che da tempo sentiamo nostro: «se Fabrizio è apparso un miscredente è solo perché amava rompere le regole e gli schemi (…), perché era sempre critico con il potere costituito. Ma io posso assicurare che pregava».  Non va poi dimenticato che nel ‘62 De Andrè diventa padre di Cristiano. Sarebbe davvero curioso per un ateo, per un personaggio che pesava e centellinava pensieri e parole, dare quel nome al suo primogenito. Né fece mancare a Cristiano e a Luisa Vittoria, la figlia avuta con Dori Ghezzi, il sacramento del battesimo. Anche le parole spese dal cantautore per ricordare i giorni del suo rapimento appaiono significative: «Non che sia diventato credente, ma quando ti trovi impossibilitato a usare la tua volontà, cerchi qualcuno che ti presevi (…). Ti metti nelle mani di qualcuno che in quel momento speri che esista. E così ti arrendi alla tentazione della preghiera». Arrendersi a questa tentazione non è altro che rendere vivo e fecondo il dialogo con il Padre, per un cristiano è una dolce resa.
Quando poi nel ‘68 l’ideologia politica era diventata la nuova fede religiosa e quest’ultima qualcosa da cui emanciparsi, De André, ancora una volta controcorrente, pubblica “La buona Novella”, un concept album tratto dai vangeli apocrifi. È un esplicito invito a leggere le istanze migliori della rivolta attraverso il confronto con quanto era avvenuto duemila anni prima in Palestina. E quando gli si chiedeva quale assurdo motivo lo avesse spinto a scrivere un intero album sulla figura Gesù Cristo, rispondeva che lo aveva fatto «semplicemente perché Gesù è il più grande rivoluzionario della storia».
Per sminuire la portata dell’operazione, i soliti addetti ai lavori hanno sostenuto che l’artista avesse utilizzato i vangeli apocrifi per sottolineare l’umanità del figlio di Dio. Ma sottolinearne l’umanità non significa affatto negarne la sacralità. Scoprire la vocazione terrena e sofferente del Nazareno, nella prospettiva del credente, vuol dire esaltare la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Niente di meno. In realtà per Fabrizio De Andrè appassionarsi al Gesù uomo significa semmai prendere le distanze da una concezione del sacro in cui il trascendente è una realtà distante e imperturbabile.
Anche gli altri personaggi de “La buona Novella” – Maria, Giuseppe, Zaccaria, Anna, Abramo, Dimaco e Tito (questi ultimi due negli apocrifi sono i malfattori crocefissi con Gesù) – proprio attraverso la loro piena umanità, acquistano e non perdono un’altra sacralità. Perfino nel Testamento di Tito, canzone che sovente e pigramente viene additata come la prova dell’ateismo di De Andrè, si nota invece chiaramente il suo tenace atteggiamento di ricerca del senso religioso.
Tito, il buon ladrone, confrontando la sua vita con i comandamenti di Dio, è polemico nell’esprimere la sua difficoltà a coglierne il significato. In realtà, nel testo egli appare come un uomo distrutto dal dolore. Non sono le argomentazioni che usa per contestare il decalogo l’aspetto centrale del brano, ma l’immensa angoscia che quest’uomo cova dentro. Non ha mai avuto qualcosa o qualcuno (“chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa”), non è stato amato dai genitori (“onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone”). È un uomo che sta morendo senza aver conosciuto amore. Nei versi finali, carichi di struggente intensità, quest’assenza viene finalmente colmata. È a causa di Cristo, crocifisso di fianco a lui, che Tito potrà dire “io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.
Se polemica religiosa in De André c’è (e c’è), questa si sofferma sulle istituzioni. Nei testi il cantautore denuncia spesso la distanza tra l’insegnamento e la testimonianza, tra ciò che Gesù faceva e l’operato degli odierni scribi e farisei. Ma il disappunto di De André non è rivolto verso la Chiesa in quanto tale, né tanto meno è il frutto di una poco elaborata tendenza anarchica.
Il suo sembra essere più un monito complice: si riconoscerà il ruolo della Chiesa solo a patto che questa faccia emergere con forza il suo straordinario contenuto, il solo motivo della sua esistenza: Cristo.
Nella vita come nell’opera di Fabrizio De André, dunque, risulta difficile non percepire una tensione verso l’infinito e il proposito di arrivare all’essenza del messaggio evangelico. E se un giorno qualcuno, magari un adolescente, ci chiedesse un’immagine, un flash in grado di contenere la poetica di Fabrizio De André, le storie e i suoi personaggi, forse non potremmo che parlargli di quel versetto dell’evangelista Giovanni, l’architrave dell’intera nostra civiltà e il filo rosso delle sue canzoni: «Vi do un comandamento nuovo: che via amiate gli uni gli altri come io vi ho amato».

(Valerio Pece)





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