BOB DYLAN/ Anteprima “Tempest”: a 71 anni ecco uno dei suoi dischi più belli di sempre

- Paolo Vites

"Tempest", il nuovo disco di Bob Dylan, è uno straordinario viaggio musicale e lirico nel passato e nel presente della grande musica americana. La recensione di PAOLO VITES

dylan-tempest_R439 Bob Dylan e la sua banda, foto Sony Columbia Records

“The circus is in town”, il circo è arrivato in città, cantava Dylan qualche decennio fa nella celeberrima Desolation Row. La canzone stessa era un circo: dentro, c’erano Cenerentola e T.S. Eliot, il gobbo di Notre Dame e il Buon Samaritano, Einstein e il Fantasma dell’Opera. In una galleria fantasmagorica di personaggi veri o usciti dalle pagine dei libri e dagli schermi dei cinema, Bob Dylan all’apice della sua visionarità poetica rinchiudeva questi rappresentanti dell’umanità in un vicolo, quello della desolazione. Quarant’anni e passa dopo, quel circo di umanità dolente torna a farci visita nelle canzoni di “Tempest”, un acuto da parte di un artista che non ci sorprendeva così da molti anni, almeno dieci, quando era uscito il suo ultimo disco davvero degno di nota, “Love and theft”. Qui troviamo infatti Charlotte la prostituta, Maria la madre di Gesù  e la Regina delle Fate, Leonardo Di Caprio e Al Pacino, Cleopatra e John Lennon.

E’ una umanità diversa, meno disperata e fallimentare, anzi qualcuno di essi è simbolo della salvezza stessa, che sia quella eterna o quella del rock’n’roll, e che non meritano questa volta di essere rinchiusi in un vicolo della desolazione. Ma allo stesso tempo, non sono degni di stare insieme ai comuni mortali: adesso siamo noi infatti, a vivere in un vicolo della desolazione. Loro ne sono fuggiti, per i loro meriti o per le loro colpe, e stanno da qualche parte in una Repubblica Invisibile dove solo i giusti possono ambire a entrare.  Un Dylan spumeggiante, irresistibile, che tratteggia un mondo non sull’orlo dell’abisso, come ha fatto più o meno per tutta la sua carriera, lanciando profezie di ogni tipo (molte delle quali rivelatesi reali), ma un mondo che nell’abisso c’è già precipitato. Siamo in un’epoca indefinibile, in una città tinta di sangue scarlatto, che si chiama Duquesne (che esiste davvero ed è – non a caso –  una città fantasma nelle montagne dell’Arizona): da qui questi personaggi osservano lo sfacelo del nostro mondo. Quella accennata nel disco è un’epoca che va dagli antichi primi re romani al Far West al naufragio del Titanic, ma è ovvio che ogni riferimento è del tutto attuale.

In Early Roman Kings Dylan infatti si permette il lusso di citare una frase tratta da un film di Al Pacino e di citare anche i “tribunali siciliani” come esempio di mala giustizia.  In questo mondo dannato che ha rinunciato a ogni speranza, o illusione, resta una sola cosa da fare: attendere non un salvatore, ma il Salvatore. “ Non mi conosci? la prossima volta che verrò sarà per tutti voi – sì, Signore, ti conosco” canta Dylan. Arriva anche a citare uno dei poeti maledetti più amati dagli artisti rock, William Blake, per ribadire il concetto: “Tigre, tigre, ardente e luminosa prego il Signore che prenda la mia anima nelle foreste della notte”. 

“Tempest” è allora un viaggio in quella Repubblica Invisibile che sin dai tempi dei “Basement Tapes”, alla fine degli anni sessanta, Dylan bazzica con affetto. Quella Repubblica dove la promessa americana era stata annunciata e per chi ci aveva creduto, come Dylan, quel territorio rimane, da qualche parte, invisibile ai più. Il viaggio comincia sin dalle primissime note: una vecchia registrazione in sordina, steel guitar e qualche accordo di chitarra acustica, un sound low-fi, come se chi suona fosse di là in una stanza chiusa, oppure una radio stesse cercando di sintonizzarsi su una stazione fantasma. O forse è proprio un fantasma, quello che suona, magari quello di Hank Williams che della Repubblica Invisibile è il re. Pochi secondi e poi parte il brano vero e proprio, che è un treno che sbuffa e traballa, un po’ come quel mystery train che viaggia da decenni attraverso la miglior storia del rock senza mai fermarsi. Non può fermarsi, fino a quando un uomo buono scriverà una grande canzone, questo treno continuerà la sua marcia. Duquesne Whistle è il fischio del treno che ci porta a Duquesne dove siamo invitati: è uno Texas swing, lo stile è quello del padre di questa musica, Bob Wills, ma Dylan ci mette dentro una dose di sano rock con due chitarre elettriche che mimano la marcia del treno.

Il cantato è disinvolto e sardonico, sprezzante e accattivante (“Dici che sono un giocatore d’azzardo, dici che sono un magnaccia, non è vero né l’una né l’altra), mentre la sua band dietro macina carbone e fischia come il treno che li sta portando dentro, fino in fondo, al mistero. “Deve essere la Madre del nostro Signore” dice a un certo punto, indicando una via di fuga. Una volta arrivati a Duquesne, Dylan si lascia andare a una delicata slow ballad molto anni 50, Soon After Midnight, in cui gigioneggia un po’ alla crooner un po’ cantante doo woop, quelle musiche tipo Isley Brothers insomma che ascoltava da ragazzino. In fondo qui a Duquesne il tempo non esiste più, ed è bello farsi accogliere da questa musica semplice, che Dylan sa padroneggiare benissimo. Subito dopo mezzanotte, ci dice con un sorriso sornione, arriverà la regina delle Fate… 

Quello che arriva è invece un brutto risveglio: Narrow Way, la strada stretta, è quella della vita. Ricordi, cattivi, del mondo là fuori: è un jumpin’ bues, ricorda nel riff indemoniato Shakin’ all Over ed è lunghissimo. La band sostiene un Dylan delirante che passa in rassegna un sacco di cose brutte e a tratti sembra di essere dentro a From a Buick 6, ai tempi di “Highawy 61 Revisited”. Ma l’incubo finisce: è un Dylan che ci prende e ci toglie dal male, questo di “Tempest”, ed è un po’ la cifra artistica di tutto il disco, alternare brani blues a ballatone folk e rock. Long and Wasted Years è una delle cose più belle del Dylan degli ultimi anni, una ballata rockeggiante che come intenzioni soniche ricorda in qualche modo i giorni straordinari di “Blonde on Blonde”: immaginatela con quel suono “sottile al mercurio”, metteteci dentro l’Hammond di Al Kooper e il gioco è fatto. Lui la canta benissimo, la recita con quell’attitudine narrante che si arrotola su se stessa, che nessun altro è mai riuscito a imitare, è in grandissima forma. Il passo è lo stesso di un altro strepitoso capolavoro cinematografico, Brownsville Girl, appartenente agli anni 80.

Pay in Blood riporta invece al lato cattivo della vita: una ballata rock che ricorda un po’ gli Stones, le chitarre  creano riff eccitanti, l’andamento è quello tipico della live band di Dylan (e infatti sono loro, Charlie Sexton in testa) che si inventa un paesaggio sonoro mentre il Capo declama i suoi incubi. Pausa, di nuovo: Scarlet Town è l’apice della poetica dylaniana, ispirata musicalmente a un classico della tradizione tra i più amati dallo stesso Dylan, quella Barbara Allen che nei primi anni 90 eseguiva quasi ogni sera in concerto. Punteggiata da un banjo, mostra la totale dedizione del cantautore per il mondo del folk, quello che nella Repubblica Invisibile tutti conoscono a menadito. Qui, canta Dylan, puoi giurarlo su Dio che ci vorresti rimanere. Con Early Roman Kings irrompe il fantasma di Muddy Waters, il re del blues elettrico di Chicago, infatti il brano è una rilettura della sua Mannish Boy. Il testo è cattivissimo, cinico e delirante: d’altro canto di antichi re romani che vivevano nel lusso e nel disprezzo altrui è pieno il mondo moderno. 

Tin Angel riporta di schianto alla poesia folk: è una dark ballad, una murder ballad di cui è piena la storia del folk, in fondo erano i telegironali del tempo, e potrebbe essere uscita dai solchi dell'”Anthology of Folk Music”, un pezzo lunghissimo, ossessivo e claustrofobico, dove spunta anche Henry Lee, uno dei peggiori serial killer di tutti i tempi. Non a caso, in questo pezzo si parla di un triplice omicidio-suicidio, con una donna che guarda i cadaveri dei suoi due amanti prima di togliersi anche lei la vita. Ed eccoci al botto del disco e che botto. Con una lunghezza di 14 minuti, la title track va dritta nel catalogo dei grandi pezzi di lunghezza analoga, quei capolavori tipo Sad Eyed Lady of the Lowlands, Desolation Row, Hurricane, Highlands, Brownsville Girl. E’ una tipica shanty song, le canzoni marinare che si cantavano nei pub irlandesi stretti sotto braccio a squarciagola, ovviamente ubriachi marci. 

La bellezza di 45 strofe in cui succede di tutto: lo spunto è il naufragio del Titanic in questi cento anni dalla sua fine (d’altro canto nella già citata Desolation Row Dylan aveva dedicato una strofa a questo enigma della storia moderna), ma dentro c’è una sequenza di avvenimenti inarrestabile, una allegoria infinita. Per la cronaca, c’è comunque anche Leonardo Di Caprio. “In 1600 sono morti” canta “il buono il cattivo, il ricco e il povero, la più amata e il migliore. Cercarono di capire, ma non c’è nulla da capire nel giudizio che appartiene alla mano di Dio”.

“Tempest” si placa come si placano anche le tempeste peggiori. Si conclude con una sorta di preghiera. Trentadue anni dopo la sua morte, Bob Dylan con l’incantevole Roll On John chissà perché ha sentito il dovere di dedicare un pezzo al suo vecchio amico John Lennon. Forse è l’età che si fa vecchia e il sentore della morte che si avvicina; forse il fatto che David Chapman aveva in mente, se non fosse riuscito a uccidere Lennon, di far fuori proprio Dylan. Forse, semplicemente, che Beatles e Bob Dylan, unici nella storia della musica rock, hanno davvero cambiato il mondo. 

Lui deve averci pensato parecchio in questi trentadue anni ed ecco Roll On John, una delicata folk ballad, che cita anche il verso più famoso del Beatle: “I heard the news today oh boy”, news che questa volta sono quelle dell’uccisione del cantante. Dentro, Dylan cita anche i Quarrymen, il primissimo complessino di Lennon. Mestizia, dolore, rimpianto, per una persona e un’età che sono ricordi sfumati nel grigio. In una parola, mistero come tutto quello di cui ha cantato in lungo e in largo questo Dylan che una volta disse: “Il mistero è cosa antica. E’ l’essenza di ogni cosa. Viola ogni concezione di bellezza e di ragione. C’era prima dell’inizio e ci sarà anche oltre la fine, Siamo stati creati dentro al mistero. I Mississippi Sheiks incisero una canzone intitolata Stop and Listen. Per gli appassionati di musica non è niente altro che un ragtime blues. Ma per me, sono parole di speranza. San Paolo ha detto che vediamo attraverso un vetro oscurato. C’è molto mistero nella natura e nella vita contemporanea. Per alcuni, è troppo difficile averci a che fare. Ma per me non è così”. Benvenuti nel mistero della Repubblica Invisibile di Bob Dylan.







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