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Home » Cronaca » LA STORIA/ Antonio, trent’anni di carcere e un cuore preso in affitto da Dio

  • Cronaca

LA STORIA/ Antonio, trent’anni di carcere e un cuore preso in affitto da Dio

Marco Pozza
Pubblicato 5 Giugno 2017
carcere_detenuti_2_lapresse_2016

(LaPresse)

Dio ci parla attraverso gli altri. Come nel caso di Antonio, carcerato, una condanna a trent'anni. Ma Dio non è affatto geloso di Antonio. Racconta la sua storia don MARCO POZZA

Antonio, che è quasi mio coetaneo, è uno dei miei ragazzi. Ho appena detto “mio-ragazzo” e già mi scopro mentitore della peggior specie: Antonio è di Dio. Siccome, però, Dio non è affatto geloso di Antonio, in questi anni ha deciso di affidarmelo come amico-in-comune: un gesto di gentilezza — “E’ veramente Signore!” —, per non farmi sentire solo dentro la galera. 


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Betlemme, per Antonio è Secondigliano, zona-Scampia: fucili imbraccati, smercio-commercio, lessico del male. Nato a Betlemme-Secondigliano, ha il domicilio — senza diritto di replica — in una patria galera del Nord-Est: la medesima nella quale sto scontando anni di sacerdozio. L’orgoglio di Antonio è il suo nuovo-mestiere: in carcere fa il verduriere. Tecnicamente: “Sono responsabile di tutte le verdure che mangiano i miei amici” racconta alla gente che incontra. 


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Le sue giornate scivolano — lente, veloci, clessidre infinite — tra le patate da pelare, le melanzane da sciacquare, i pomodori da affettare. Ha trent’anni: all’anagrafe, trenta anche da scontare. Lui è la lingua-di-Dio per me: siccome in carcere Dio non ama parlare — sono già troppi i suoni scalmanati, le voci accavallate, le grida rotte —, s’affida alla voce di qualcuno per far scorrere dentro la sua. Esagero, sapendo di non esagerare: come Aronne prestava la voce a Mosè, affetto da fastidiosa balbuzie, Antonio presta la voce a Dio per parlare a me, affetto da atavica autostima. “La cosa più bella che ho imparato in questi anni di carcere — racconta Antonio quando porta la sua testimonianza — è la bellezza di comperarmi un giubbotto con soldi puliti. Lavorando, sudando, non rubando”. Un’ammissione di responsabilità che, sola, mi è sufficiente per sentirmi piccolo. Forse anche un po’ bugiardo col mio Dio.


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Antonio, oltre che essere voce-di-Dio per me, è anche buona-giornata per me. La mattina, quando mi rattrappisco in sacrestia per lavorare di cucitura con le storie di qualcuno, riconosco i suoi passi quando sono ancora lontani. Porta — doveste vedere con che orgoglio — gli stivali da lavoro, il grembiule bianco, il suo berretto da cuoco. Quando s’accorge, sbirciando dallo spioncino della porta-blindata, che sto con qualcuno, si siede. Attende. Una volta ha aspettato due ore: “Ti avevo visto — gli dico accarezzandolo — ma pensavo fossi tornato a lavorare”. Lui, sorriso e cicatrici, ribatte ch’è una meraviglia: “Ho aspettato, non volevo disturbarti. Devo dirti una cosa importante”. 

La più importante, per uno che ha una montagna di galera davanti, un abisso di nebbia dietro: “Buona giornata, don Marco. Se hai bisogno di qualcosa, dì ad Alfredo (il mio celebre sacrestano) che mi chiami. Io sono di là, in cucina”. Il povero è compagnia, protezione, salvaguardia. Sono due anni che Antonio, ogni mattina, mi porta la buona-giornata. Con anticipo-di-aiuto, qualora servisse. Il mio Dio-in-borghese si chiama Antonio. La galera è il deserto degli apolidi, dei senza-casa. In questo paese Dio ha piantato la sua tenda. La galera è il mio-paese di Dio. Qui dentro, uomini con storie sbiadite e delinquenziali, mi portano a spasso con mani sicure. Tutt’intorno fette d’inferno, di paradiso.

Il verduriere-Antonio è anche mio chierichetto: “Credimi: quando ti faccio il chierichetto, mi sento importante”. Perché non dovrei credergli? Ieri, a messa, abbiamo pregato per Alessio, un ragazzo che nel pomeriggio è stato consacrato sacerdote. Ha vissuto un anno assieme a noi, in carcere. Lui ci ha regalato del tempo, noi lo abbiamo profumato dell’odore-delle-pecore. Dico loro: “Quando ci capitano storie così, abbiamo la certezza che siamo nelle mani di Dio, ragazzi”. Quante volte, da bambino, mi sono sentito dire: “Sei nelle mani di Dio, Marco”. Per uno come me, che ha sempre avuto paura-cane d’essere solo, era il più bel complemento-di-compagnia. Lo è tutt’ora, ancor di più. Li benedico: La messa è finita. Andate in pace. 

In sacrestia, mentre sistema le vesti, Antonio mi fissa. Mi trae in disparte — “Devo dirgli una cosa, via!” intima —, e mi sotterra: “Siamo nelle mani di Dio. Bellissima questa storia!”

Chissà dove vuole andare a parare. Carica il colpo, sistema le parole, è per la mia disfatta: “A messa, però, eri tu che avevi in mano Dio: ti ho guardato quando hai alzato il Pane. ‘Questo Pane è Dio, Antonio’, mi hai detto quando non capivo cosa fosse una particola. Noi siamo nelle mani di Dio, ma Dio è in mano tua. Ho ragionato bene, dimmi?”

Non ha ragionato bene: questo ragiona-da-Dio. E’ voce scomoda di Dio.

Questa che inizia è la settimana-cara ai sacerdoti: tanti, come nelle storie d’amore, celebrano il loro anniversario. La mia storia-con-Lui è storta, sbilenca, sempre sul punto di saltare per aria. Però, incredibilmente, sta in piedi. Il perché me l’ha spiegato Antonio, verduriere-chierichetto: “Sei nelle mani di Dio. Dio è in mano tua”. 

I poveri sono gente-pericolosa: i loro cuori, quando li prende in affitto Dio, sono esche luminose. Ti rimpiccioliscono, per ingrandirti: per dirti chi sei. Quanto vali per Lui.


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