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Home » Economia e Finanza » Banche » (FANTA?)FINANZA/ Mediobanca-Unicredit-Generali, la fusione dopo la sconfitta in Rcs

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(FANTA?)FINANZA/ Mediobanca-Unicredit-Generali, la fusione dopo la sconfitta in Rcs

Sergio Luciano
Pubblicato 20 Luglio 2016
Mediobanca_SedeR439

Lapresse

Mediobanca esce sicuramente sconfitta nella partita su Rcs vinta da Urbano Cairo e Intesa Sanpaolo. SERGIO LUCIANO ci spiega cosa potrebbe fare ora piazzetta Cuccia

Tra “latente” e “conclamata” c’è una bella differenza: quando una crisi di potere, come quella di Mediobanca, passa dal primo al secondo stadio, il mercato finanziario sente l’odore del sangue. Ancora poco tempo fa si sarebbe detto: di lì non si passa, c’è Mediobanca. Dopo la debacle dell’istituto che fu di Enrico Cuccia nella gara contro Urbano Cairo per l’acquisizione della Rcs è scattato il semaforo verde. Chi vuole pestare i calli a ciò che resta della centrale di potere economico più arrogante ma insieme più lucida che mai ebbe l’Italia, si accomodi.


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È questa la morale che deriva dal “cappotto” della cordata Mediobanca contro quella di Banca Intesa. “E adesso, pover’uomo?”, viene da chiosare, citando il best-seller di Hans Fallada… Adesso chiunque abbia appetiti predatori su ciò che resta del patrimonio presidiato dall’istituto ha la sensazione di poterli saziare. Magari è solo una sensazione ma a provarci non ci si riuscirebbe. Magari no. 


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Anche la reazione, il contropiede a Cairo che, nelle primissime ore di qualche giorno fa –- dopo l’annuncio della sconfitta – molti sul mercato ipotizzavano, è stata un’ipotesi che subito dissolta. I soci della cordata si sono consultati in fretta, tra loro e con i legali, e hanno valutato se adottare o meno l’unica contromisura che pareva possibile: attaccare Cairo sul piano giuridico, davanti alla Consob, per l’acquisto, da lui effettuato il 15 luglio, cash, di un pacchetto Rcs del 4,2% allo stesso prezzo unitario di 1 euro offerto dalla cordata Bonomi. In teoria, questo blitz ha privato il “fronte” dei soci interessati all’offerta concorrente di una potenziale, sostanziosa adesione. Ma senza il nerbo pugnace della Mediobanca d’antan, ha prevalso la linea responsabile, che in affari non nasce mai dalla filantropia, ma dalla sensazione di non avere in mano le carte per vincere.


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Per cui gente seria come Tronchetti, Della Valle e soprattutto lo stesso Bonomi hanno preferito ritirarsi senza resistere, e il capo di Investindustrial – che resta il gruppo di origine italiana leader nel private equity – ha ritenuto meglio defilarsi e ha voluto rilasciare a caldo una dichiarazione pacifica e piena di sportivo “fair play”. A conferma del fatto che il vero sconfitto non è lui: Bonomi sta già trattando gioielli come le Cartiere Fedrigoni di Verona, ha appena venduto benissimo Stroili Oro, non c’è dossier pregiato in Italia, per una compravendita, che non transiti sulla sua scrivania. Sulla sua, appunto: non più su quella di Mediobanca.

Dal 2008 a oggi, cioè tra prima e dopo la crisi, il forziere delle partecipazioni strategiche della banca guidata da Alberto Nagel si è svuotato. Otto anni fa conteneva, oltre alla maggior singola quota nel capitale delle Generali, pacchetti azionari di riferimento, o comunque incardinati in patti di controllo, dentro Rcs, appunto, ma anche Fonsai, Italmobiliare, Telecom Italia, Burgo, Pirelli.

E oggi? Vediamo un po’. Fonsai, condotta dalla “malagestio” ligrestiana (a suo tempo evocata da Cuccia e mai debellata, anzi!) sul limite del fallimento, è stata salvata sì, ma con un’operazione finanziaria che ha lasciato l’amaro in bocca al mercato e soprattutto ha messo in sicurezza l’azienda (onore a quest’unico merito del regista) al prezzo di svenderne i pezzi collaterali e collocarne il “cuore” assicurativo nelle forti mani dell’Unipol, che nulla hanno a che vedere però col circolo della finanza privata: sono mani delle cooperative. Italmobiliare è uno scrigno pieno di soldi, ma al costo di aver venduto ai tedeschi la sua partecipazione industriale prevalente, Italcementi. Pirelli le ha tentate tutte, grazie agli sforzi del suo solo capo storico Marco Tronchetti Provera, per trovare assetti azionari stabili in mani italiane, da Malacalza a Clessidra e Bonomi (sempre lui), ma alla fine ha dovuto scegliere un’alternativa straniera, cinese, alla proprietà nazionale: va bene, nell’era della globalizzazione, ma come operazione “di sistema”, dal punto di vista della banca garante, si poteva far di meglio. Telecom Italia è il capolavoro, perché è stata scalata quasi “in surplace”, senza darlo a vedere, da un altro gruppo straniero, la Vivendi che fa capo al maggior singolo azionista di Mediobanca, Vincent Bollorè. E per la Burgo, che l’istituto controllava al 22% e su cui ha perso almeno 200 milioni, si è aperto un futuro di “spezzatino”.

Cosa resta? Restano le Assicurazioni Generali. Con in pancia 450 miliardi di asset gestiti. Un’azienda solida, passata attraverso la breve ma certo proficua gestione di Mario Greco alla guida competente di un francese, guarda caso connazionale di Bollorè e consigliere d’amministrazione della sua Vivendi: Roger Philippe Donnet, mentre in Unicredit, che è la principale banca azionista di Mediobanca e sta navigando per superare una nuova difficoltà patrimoniale, si è instaurata la gestione di un altro francese, Jean-Pierre Mustier, fortemente voluto dal vicepresidente “pesante” di Unicredit Fabrizio Palenzona. I due si conoscono e hanno studiato entrambi, sia pure in anni diversi, all’Ecole Polytechnique.

Le Generali sono scalabili: la prima quota, quella di Mediobanca, pesa ancora il 13% sul capitale (per circa 3 miliardi di valore) e piazzetta Cuccia si sta “sacrificando” molto per tenersela stretta, perché le regole bancarie e assicurative europee impongono di calcolare un forte assorbimento di capitale di vigilanza alle aziende finanziarie che detengano partecipazioni superiori al 10% in altre aziende dello stesso ambito, per cui volendo tenersi quel 13% (anziché ridurlo al 10%), Mediobanca si accontenta di un “Core Tier 1” più basso di quel che potrebbe avere. Ma è un ben debole deterrente, perché Mediobanca, da sola, non potrebbe mai arrotondare tale quota per difendere l’azienda da una scalata ostile.

Gli scenari verosimili sono dunque due: o un take-over sulle Generali, da parte di un colosso internazionale, che non sembra attuale solo per l’instabilità economico-finanziaria che sta attraversando l’Eurozona e sconsiglia chiunque dal fare blitz adesso; o una megafusione Unicredit-Generali-Mediobanca, dossier sul quale si sta concettualmente esercitando più di un advisor. Avere una quota anche piccola dentro una simile aggregazione creditizia e finanziaria potrebbe rappresentare, per l’unico capitalista vero che ha investito soldi (anche) suoi in questa partita -Bollorè – un modo per controllare con poco il ganglio decisivo dell’economia italiana. E industrialmente avrebbe il senso di diluire le zavorre che affossano oggi in tutto il mondo il modello tradizionale del business bancario, cioè innanzitutto la sterminata e semi-inutilizzabile rete fisica degli sportelli, in un sistema più prospettico e leggero come quello delle compagnie di assicurazioni.

Non è un caso se il gruppo Caltagirone sta ritoccando al rialzo la sua quota in Generali. E se negli ultimi quindici giorni il titoli di Trieste è salito in Borsa di un euro e mezzo, recuperando senza apparenti ragioni specifiche un bel pezzo del terreno perduto.

Tags: Mediobanca

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