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Home » Politica » DIETRO LE QUINTE/ La “guerra” di poltrone che spiega la vittoria di Bersani

  • Politica

DIETRO LE QUINTE/ La “guerra” di poltrone che spiega la vittoria di Bersani

Ugo Finetti
Pubblicato 4 Dicembre 2012
BersaniPartitoDemocraticoDirezioneR400

Foto: InfoPhoto

Concluse le primarie del centrosinistra con la vittoria del segretario del Partito democratico, UGO FINETTI si chiede adesso come mai Matteo Renzi non sia stato una “bolla mediatica”. 

Il risultato di Matteo Renzi rappresenta per certi aspetti una sostanziale vittoria. Infatti sono state le “sue” primarie. Che cosa sarebbe stata la competizione senza di lui? Originariamente si trattava di una “kermesse”, annunciata il giorno stesso della firma dell’accordo elettorale tra Pd e Sel, al fine di dare “visibilità” a Vendola e presentare Bersani come “moderato”. Un gioco delle parti secondo rapporti di forza scontati. Se invece vi è stato un “effetto primarie”, che ha fatto crescere il Pd nell’opinione pubblica, è perché sono state primarie “vere”, combattute su contenuti anche nuovi per il Pd, dando l’immagine di un corpo vivo e appassionato, dove si è pronti a fare “battaglie di minoranza”. Il Pd è sembrato così capace di recuperare dall’antipolitica di Grillo e di primeggiare rispetto a un Pdl imbalsamato dove si continua a praticare un surreale “culto della personalità” nella convinzione che gli italiani siano di destra e che “alla fine” voteranno ancora Berlusconi. 


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E’ quindi da chiedersi perché il sindaco di Firenze non sia stato una “bolla mediatica”. Si tratta di ragioni serie che si basano sui limiti e le contraddizioni della lunga marcia, di cui Pier Luigi Bersani è espressione, dal Pci ai Ds ed, infine, al Pd. 

La “rottamazione” non è un fatto meramente anagrafico, ma politico e riguarda contenuti e identità. Il “ragazzetto” di Firenze non ha inventato, ma ha interpretato due esigenze da tempo presenti nella sinistra italiana ed anche al di là di essa: gettarsi alle spalle la “guerra civile” che caratterizza la Seconda Repubblica e affrontare la crisi economica gettandosi alle spalle la lettura classista. Matteo Renzi, fatte naturalmente le dovute proporzioni, ricorda un po’ il socialismo spagnolo postfranchista quando nel 1974 scelse come leader Felipe Gonzales, nato dopo la guerra civile, che aveva 32 anni e che divenne a 39 capo del governo non nel segno della rivincita dell’“altra Spagna”, ma del voltar pagina svelenendo gli animi e proponendo uno sforzo unitario di modernizzazione.


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Pier Luigi Bersani, per quanto incarni al meglio il meglio della tradizione ex comunista, si presenta come una rivincita dell’“altra Italia”. Alleandosi con Vendola e dando diritto di veto alla Camusso personifica una sinistra d’antan che pensa ancora di uscire dalle crisi del capitalismo ridistribuendo il reddito nella convinzione che, in verità, la crisi e i sacrifici siano un “imbroglio” dei capitalisti, i soldi ci siano e basta farli venire fuori con la lotta ai “cattivi”: i ricchi e gli evasori. Anni 70. Quando il leader della destra comunista, Giorgio Amendola, proponeva al Pci e alla Cgil “sacrifici senza contropartite”, Berlinguer gli replicava che non conosceva “l’abc del marxismo”. 


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Quando Giorgio Napolitano “per la prima volta” (come disse Gerardo Chiaromonte), pose in seno alla Direzione del Pci “la questione del debito pubblico” incontrò una dura reazione da parte del responsabile economico del Partito: “Sono in totale dissenso con Chiaromonte: egli dice, con Napolitano, che la questione suprema è il debito pubblico … Ma se ci imbarchiamo su questa questione lo sbocco sono i tagli e le tasse”. Si era nella seconda metà degli anni 80 e l’attuale responsabile economico del Pd, il bersaniano Fassina, non è molto distante da quello di allora. Non stupisce quindi che sui giornali si sia letto in questi giorni che “i fedelissimi di Napolitano”, da Umberto Ranieri a Biagio De Giovanni, abbiano votato per il “rottamatore” senza bisogno di suggerimenti dal Quirinale.


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Ma a questo punto è da chiedersi quale “scenario” si apra per l’immediato. Il modo di trattare Renzi come un “ragazzetto” o, addirittura, un infiltrato del centro-destra è certamente un’esagerazione, ma rispecchia preoccupazioni molto concrete: si tratta di posti. Bersani ha preso impegni con i partiti alleati e con i propri sostenitori nel Pd sulla presenza parlamentare. Alla vigilia delle primarie aveva già distribuito il 100 per cento dei posti. Ma ha fatto i conti senza il 39 per cento di Renzi.

E ora? “Decido io”, egli afferma. Ed è sicuramente così, ma chi scaricherà? Gli “elefanti” o il “rottamatore”? Dopo l’esito delle primarie la tesi di Rosy Bindi e di D’Alema è che Renzi rappresenta l’area non ex Pci e quindi va rappresentato attraverso gli ex Dc: Bindi stessa e Fioroni. E, a sua volta, Vendola sostiene di essere il miglior rappresentante della esigenza di “rottamazione”.


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In questo ballottaggio molti autorevoli bersaniani, il Sel e la Cgil hanno “scomunicato” Renzi, ma il suo milione di voti sono elettori che non è scontato che rispettino il “centralismo democratico” di Togliatti mettendosi in fila a votare i candidati di Vendola e della Camusso (della Bindi e di D’Alema) che li insultano.

Molto dipende da che cosa si muove a destra e al centro e cioè se Bersani avrà ancora un gioco “a porta vuota” come oggi con Pierferdinando Casini che, alla vigilia delle elezioni politiche, si allea con Pd e Vendola dalla Lombardia al Lazio e Silvio Berlusconi che si sposta sempre più a destra portando – o formando – il proprio partito fuori dal Partito Popolare Europeo (e facendo “da sponda” a Bersani e Vendola nell’affossare la riforma della legge elettorale).


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Può però essere verosimile che il Parlamento-Porcellum III non avrà vita lunga.

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