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Home » Economia e Finanza » PRIVATIZZAZIONI/ Ecco chi vuole la “svendita” dell’Italia

  • Economia e Finanza

PRIVATIZZAZIONI/ Ecco chi vuole la “svendita” dell’Italia

Int. Alberto Bagnai
Pubblicato 15 Settembre 2013
Eni_PalazzoR439

InfoPhoto

Secondo ALBERTO BAGNAI, privatizzare aziende come l’Eni è un’operazione che va di pari passo con la difesa di una valuta forte e favorisce gli interessi dei delocalizzatori

Le privatizzazioni non sono sempre un male, ma quelle compiute in Italia negli anni Novanta vengono ricordate con il termine meno lusinghiero di “svendite”. Oggi, per far fronte a un crescente debito pubblico, il governo non esclude di mettere sul mercato le società – tra cui dei veri e propri “gioielli” – che ancora lo Stato possiede o controlla, come Enel, Eni e Finmeccanica. Al Workshop Ambrosetti di Cernobbio si è tornati a parlare del tema con la possibile presentazione di un piano di privatizzazioni entro fine mese e la conferma del presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, dell’apertura di un dossier relativo ad Ansaldo. Corriamo il rischio di svendere dei pezzi pregiati della nostra industria, magari strategica? Abbiamo fatto il punto della situazione con Alberto Bagnai, Professore di Politica economica all’Università di Pescara.


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Trova l’operazione  politicamente legittima?

Dal punto di vista economico, no. Il tentativo di abbattere il debito tramite la cessione di attività pubbliche si è sempre rivelato un fallimento: ogni volta che si è proceduto in questa maniera, lo stock di debito non è stato sensibilmente intaccato; in compenso, lo Stato si è privato di un importante fonte di entrate. È evidente, infatti, che se un’azienda viene ceduta all’estero (il nostro governo parla, in tal senso, di “afflusso di capitali esteri”) i suoi profitti andranno fuori dall’Italia. Un’evidenza che, di recente, ha ribadito Romano Prodi, su Il Messaggero del 17 agosto.


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L’artefice delle svendite degli anni 90?

Effettivamente, fu l’artefice di quel progetto.

E pure dell’adozione dell’euro al cambio di 1936,27 lire. Che effetti produsse quella scelta?

Ogni volta che un Paese adotta una valuta troppo forte per le condizioni della propria economia, si espone al rischio di svendita. Nonostante alcuni economisti non molto preparati sostengano che la valuta forte rende l’acquisto delle nostre imprese particolarmente oneroso, mettendoci così al riparo dalle acquisizioni straniere.

E invece?

Invece è vero il contrario: la valuta forte distrugge la redditività delle aziende, mettendo gli imprenditori in condizioni di vendere. Inoltre, la mancanza di sovranità monetaria ha esposto l’Italia ad attacchi speculativi all’interno del mercato dei titoli pubblici e a un crollo delle quotazioni borsistiche. Le aziende che hanno visto i propri valori di mercato crollare sono diventate estremamente vulnerabili.  


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Le vendite che ha in mente il governo che effetti produrrebbero sul debito pubblico?

Nessuno. Il debito pubblico non si sostiene, alla stregua di qualunque altro tipo di debito, agendo sullo stock, ovvero sull’ammontare, ma sui flussi, cioè sui redditi. Mi spiego: chi è ricco, può permettersi forti indebitamenti.

 

Secondo lei, che senso ha, quindi, l’operazione del governo?

Operazioni di questo tipo, contestualmente alla difesa della valuta forte, servono per favorire gli obiettivi dei delocalizzatori, ai quali conviene portare la produzione fuori dall’Italia, per beneficiare del basso costo dei salari, ma tornare a vendere i prodotti in Europa, dove l’euro forte rende estremamente facile importare da paesi più poveri. Non è un caso che questo governo sia fortemente allineato, come si è visto a Cernobbio, con Confindustria. Come se non bastasse, queste iniziative, se fatte in condizioni di emergenza, quando i valori di mercato sono bassissimi, sono talmente poco redditizie che inducono un legittimo sospetto: servono per promuovere gli interessi dei creditori esteri e delle grandi banche d’affari che ci guadagnano prima a suon di costose consulenze e, poi, gestendo le suddete opearzioni. 


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Tuttavia, non crede che ci siano beni pubblici che non solo è legittimo ma anche doveroso vendere, come le partecipazioni degli enti locali nelle aziende pubbliche?

Il cuore del problema consiste nella qualità della spesa pubblica e nell’efficienza nella gestione del patrimonio pubblico. Occorre, quindi, abbattere la cattiva burocrazia che vessa il cittadino, sostituendola con una che sistematicamente compia i dovuti controlli. 

 

(Paolo Nessi)

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