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Home » Lavoro » Sindacati » SCENARIO/ Caro Bersani, se vuoi dar lunga vita al Pd non imitare la Cgil

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  • Politica

SCENARIO/ Caro Bersani, se vuoi dar lunga vita al Pd non imitare la Cgil

Paolo Franchi
Pubblicato 26 Febbraio 2010
BersaniPD_R375

Pierluigi Bersani

Le difficoltà più gravi del Pd, comprese quelle emerse attorno ad alcune candidature per le elezioni regionali sembrano derivare da un perdurante e vistoso deficit di identità. L'analisi di PAOLO FRANCHI

Si dice, giustamente, che le difficoltà più gravi del Pd (comprese quelle emerse attorno ad alcune candidature per le elezioni regionali: si veda, per tutti, il caso Bonino) derivano in primo luogo da un perdurante, vistoso deficit di identità. Un deficit che la segreteria Bersani, impegnato com’è il segretario soprattutto nella manutenzione del partito, non ha neanche iniziato a colmare, visto che, da solo, il richiamo a non svellere le radici di sicuro non basta.


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Personalmente, con i giudizi liquidatori su Bersani andrei un po’ più cauto, buon senso, realismo e concretezza non mi paiono affatto doti da sottovalutare. Specialmente in tempi difficili, e anche torbidi, come questi che ci sta toccando di vivere. Però è vero, buon senso, realismo e concretezza sono ottime cose, ma servono un’intuizione del mondo, un’idea di paese e un radicamento sociale che li sostengano, perché non si vive di politica del giorno per giorno: le elezioni regionali non sono un giudizio di Dio, possono andare bene o male, e anche benino o maluccio, ma non si costruisce un partito nuovo compiacendosi, o preoccupandosi, di qualche presidenza di Regione vinta o perduta.


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Le polemiche sul carattere più o meno socialdemocratico del Pd, e sulla possibilità o meno per dei cattolici di vivere in un partito laico e di morire (il più tardi possibile, si capisce) socialisti, onestamente faticano ad appassionarmi. E non solo perché Bersani e compagni negano risolutamente che il Pd sia un partito socialdemocratico, o intenda diventarlo. Il fatto è che di questioni simili in Europa non si discute da nessuna parte. Perché l’Europa è scristianizzata, materialista e edonista o perché i problemi, per laici e cattolici, sono palesemente altri, e sarebbe il caso di cercare di affrontarli insieme senza mancarsi di rispetto? Sarò un po’ rozzo, ma propendo con nettezza per la seconda ipotesi.


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E dunque, se qualcuno cerca di dare il suo contributo per tentare almeno di metterli a fuoco, capisco bene che la cosa non appassioni come un grande dibattito sul ruolo delle escort nel crepuscolo (devo essermi perso l’apogeo) della Seconda Repubblica. Ma sono contento e interessato lo stesso. Così contento, e così interessato, da chiedermi persino, ingenuamente, come mai quelli propensi a discuterne siano così pochi.

Mi è successo, da ultimo, con l’intervento di Massimo D’Alema, il 22 febbraio, davanti agli studenti italiani della London School of Economics. Perché D’Alema ha provato a prendere il toro (il toro socialista, progressista, democratico, fate voi: comunque il toro della sinistra europea) per le corna. Interrogandosi pubblicamente sul paradosso dei paradossi. Chiedendosi cioè come mai, di fronte a una crisi globale che riattualizza clamorosamente molte “ragioni del socialismo” (perdonatemi se faccio un po’ di pubblicità alla rivista di Emanuele Macaluso che ho l’onore di co-dirigere), a prendere botte da orbi in Europa siano soprattutto, anche se non soltanto, i partiti socialisti e socialdemocratici.

Sia quelli che quindici anni fa, quando da soli o in coalizione governavano 13 paesi dell’Unione su 15, si illusero di riuscire a passare la nottata salvando il salvabile delle conquiste del Welfare, sia quelli (il New Labour di Blair per primo, ma tra gli altri pure il Pds dalemiano) che invece suonarono il piffero per le meraviglie del capitalismo globalizzato.

Non starò ad annoiarvi  elencando le risposte di D’Alema a questo interrogativo, chi vuole le può leggere sul sito dell’ex presidente del Consiglio. Mi limito a segnalare la tesi avanzata a conclusione del suo intervento. Secondo la quale la sinistra (o come si chiama adesso) o riesce a fare suoi, in termini nuovi e su scala europea, i grandi temi del lavoro (e quindi anche di quel conflitto che, in età blairiana, schroederiana e, da noi, prima dalemiana poi veltroniana, sembrava dover essere definitivamente espunto dall’orizzonte democrat), della democrazia e dell’uguaglianza, o non va letteralmente da nessuna parte. E rischia di smarrire la sua stessa ragione sociale di esistenza.

Personalmente sono del tutto d’accordo. Il cantiere da aprire, e subito, è esattamente questo: un cantiere in cui ci sarebbe posto, se non proprio per tutti, per molti; e dove tanti laici e tanti cattolici potrebbero benissimo lavorare insieme, e verificare se e quanto i rispettivi riformismi possano venire a sintesi, nel medesimo partito o con collocazioni diverse, in fondo, poco importa. Per farlo bisogna, certo, recuperare il gusto (e magari pure la capacità) di pensare in grande. Ma anche, e prima ancora, occuparsi un po’ meno della politica politicante (per esempio, nel caso di D’Alema: evitare il più possibile tour masochistici prima ancora che sfortunati come quello pugliese) e guardare con occhio freddo quel che ci capita attorno, magari a un metro dal nostro naso.

Possibile che, nel Pd e dintorni, a nessuno interessi quello che sta capitando (o meglio: che non sta capitando) nel congresso della Cgil? Forse agli studenti italiani della "London School of Economics" la cosa interessa fino a un certo punto. Ma a chi si propone di rimettere insieme le forze del lavoro, della democrazia e dell’uguaglianza dovrebbe interessare moltissimo.

Tags: CgilPd

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