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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Dai diritti umani al politically correct: attenti al liberalismo illiberale

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LETTURE/ Dai diritti umani al politically correct: attenti al liberalismo illiberale

Giuseppe Bonvegna
Pubblicato 20 Dicembre 2015
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Il cardinale Joseph Ratzinger (Foto dal web)

Di cosa stiamo parlando quando diciamo "diritti umani", "religione civile" e "laicità"? Se lo chiede Giuseppe Reguzzoni in un volume dedicato al liberalismo illiberale. GIUSEPPE BONVEGNA

Di cosa stiamo parlando quando parliamo di “diritti umani”, di “religione civile” e di “laicità”? Se lo chiede Giuseppe Reguzzoni, nel suo ultimo volume che inaugura la collana “Antaios” di ambito storico-politico, della quale è direttore, per l’Edizioni XY.IT di Arona, presentata all’ultima Fiera internazionale del Libro di Francoforte (ottobre 2015): Il liberalismo illiberale. Come il politicamente corretto è divenuto la nuova religione civile delle società liberali, XY.IT, Arona (Novara) 2015. 


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La risposta è che si tratta di espressioni legate al fatto che abbia (o non abbia) un ruolo, al loro interno, la valorizzazione delle differenze identitarie, innanzitutto a livello comunitario. Se, ad esempio, è vero che (come ricostruisce l’Autore) i diritti umani vengono reintrodotti nel diritto internazionale all’indomani della seconda guerra mondiale nel tentativo di riaffermare, contro il nazismo, i presupposti etici delle democrazie liberali, allora non si potrebbe dar troppo facilmente ragione a Marcello Pera quando, nel suo ultimo libro, sostiene che persino nei documenti del Concilio Vaticano II risulta problematica la spiegazione del nesso tra diritti e persona (Marcello Pera, Diritti umani e cristianesimo. La Chiesa alla prova della modernità, Marsilio, Venezia 2015). I diritti umani sono infatti già parte integrante del presupposto etico (guadagnato fin dai primi secoli del Medioevo all’interno della comunità e del pensiero cristiano dell’Occidente in esplicito riferimento alla Rivelazione cristiana) che va sotto il nome di “persona” e  non ne costituiscono invece (come vuole Pera) una derivazione affrettata. 


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Eppure, non è meno vero, secondo Reguzzoni, che il discorso sui diritti umani, pur fondato su quei presupposti etici, ha finito, nel corso della seconda metà del Novecento, per emanciparsi da essi, servendo da giustificazione di forme di liberalismo che legittimavano, proprio in nome dei diritti umani, comportamenti e pratiche in contrasto con quei presupposti etici: i diritti umani, fondati sul concetto di persona, cominciavano a essere utilizzati per giustificare pratiche e comportamenti in contrasto col concetto di persona. 

Il riferimento non è soltanto all’aborto, alla fecondazione artificiale e alla teoria del gender, ma anche alla rivitalizzazione dell’idea rousseauiana di sovranità popolare, presente nel filosofo statunitense John Rawls, nel momento in cui egli, grosso modo a partire dalla fine degli anni Sessanta, proponeva una teoria della giustizia svincolata dalle concezioni metafisiche del bene umano e giustificantesi unicamente in forza di un accordo sulle procedure legislative. Secondo Reguzzoni, il risultato di una filosofia politica, come quella rawlsiana, che vede come unico modo per promuovere una convivenza tra identità culturali e religiose (spesso radicalmente diverse) quello di mantenerle in vita soltanto al livello della vita privata dei singoli, non può che essere la religione civile. O meglio: un tipo molto particolare (rousseauiano) di essa. 


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Perché (e torniamo alla chiarificazione terminologica) c’è religione civile e religione civile. Quella alla quale torna il liberalismo procedurale alla Rawls è non la “religione civile” intesa (alla Alexis de Tocqueville) semplicemente come patrimonio etico, culturale e religioso che sta alla base di una nazione, ma una “religione” che si concepisce “civile” nel senso che, ponendosi in alternativa al cristianesimo, giustifica non già la laicità, ma il laicismo: una posizione ideologica che legge la teoria della neutralità religiosa dello Stato nello spazio pubblico (laicità negativa), riducendone il separatismo tra politica e religione a contrapposizione tra i due ambiti. Nel tentativo di costruire una politica completamente separata dalla tradizione religiosa della comunità, la nuova rivitalizzazione della vecchia religione civile rousseauiana non farebbe altro, secondo Reguzzoni, che favorire la nascita di una mitologia del “politicamente corretto”, cioè di una conformità a un sistema di valori contrapposto alla tradizione e, perciò, astratto e “illiberale”.

Il vero significato della laicità è invece non il laicismo, ma la laicità positiva, cioè una visione dei rapporti tra politica e religione (erede del pensiero politico medioevale e durata fino alla Riforma e alle guerre di religione) ruotante sull’idea della distinzione tra i due poteri che, nemmeno nelle sue fasi di scontro, aveva messo in crisi l’unità della res publica cristiana.

Tuttavia, come testimonia un recente volume collettaneo che raccoglie interventi di Jürgen Habermas, Charles Taylor, Judith Butler e Cornel West sul tema del ruolo della religione nella vita pubblica, l’interpretazione “radicale” della laicità negativa che, a partire dal (e grazie al) rawlsiano A Theory of Justice (1971), avrebbe potuto condurre al laicismo, si è in realtà molto attenuata. E ciò non solo perché Rawls, almeno a partire da Political Liberalism (1993), ha mitigato la sua posizione, ma anche perché lo stesso Jürgen Habermas, che può essere considerato l’esponente vivente più rilevante della posizione liberale e pur essendo partito (alla fine degli anni Ottanta) da una posizione filosofico-politica scarsamente interessata alla religione, sta (ormai da oltre dieci anni) rivalutando il ruolo della religione, proponendo una traduzione delle intuizioni etiche delle religioni in un linguaggio filosofico post-metafisico: Religioni e spazio pubblico. Un dialogo tra J. Habermas, C. Taylor, J. Butler e C. West, a cura di Eduardo Mendieta e Jonathan vanAntwerpen, Armando, Roma 2015.

Ma, non per questo, il lavoro di Reguzzoni perde di interesse, perché anzi, proprio in riferimento a questa “sterzata conservatrice” del pensiero liberale, potrebbe aiutare a comprendere che, anche all’interno di una rivalutazione del cristianesimo nello spazio pubblico, resta tuttavia una domanda inevasa che verte sulla natura del cristianesimo. 

Il processo di secolarizzazione che l’Autore, riprendendo Carl Schmitt ed Ernst-Wolfgang Böckenförde, ritiene essere all’origine della formazione dello Stato moderno (e quindi anche del liberalismo contemporaneo) è infatti un processo di secolarizzazione di contenuti cristiani e non può essere pienamente compreso senza domandarsi, con Böckenförde, la natura del fenomeno che ne sta alla base: «La fede cristiana, nella sua struttura interna, è una religione come le altre, per cui la giusta forma in cui può presentarsi è quella del culto pubblico (della polis), oppure essa trascende le religioni precedenti, in quanto la sua efficacia e la sua realizzazione stanno proprio nell’abbattere le forme sacrali della religione e il dominio pubblico del culto, e nel condurre gli uomini verso un ordinamento razionale, temporale del mondo, cioè alla consapevolezza della propria libertà?».


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