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Home » Cultura » IL CASO/ Riscrivere i Promessi Sposi e Kafka, l’ultima follia di un mondo senza più fantasia

  • Cultura

IL CASO/ Riscrivere i Promessi Sposi e Kafka, l’ultima follia di un mondo senza più fantasia

Luca Doninelli
Pubblicato 26 Novembre 2009
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LUCA DONINELLI prende di mira l’ultima trovata modaiola del mondo culturale italiano, la riscrittura in chiave moderna dei grandi classici della letteratura da parte dei giovani aspiranti scrittori di oggi

Sabato in Triennale, a Milano, ci sarà da ridere. Fanno il loro esordio le cover romanzesche. Prendi un romanzo (fuori diritti, s’intende), e prova a riscriverlo in modo da fargli dire qualcos’altro. Rivolta i Promessi Sposi per trasformarli in un sogno cyberpunk o in un manga. Perché no? È sempre la solita storia del perché no?, del che male c’è? E se La metamorfosi di Kafka fosse una fiaba new age? Perché no? E se Poe fosse in realtà autore di racconti minimalisti? Perché no? Già arrediamo le nostre case con i versi di Sofocle e portiamo t-shirt con lo sguardo della Medusa o la follia di Eracle, e allora che male c’è?


LETTURE/ M.T. Anderson e quei "ladri d’ossa" che rubarono le reliquie di san Nicola


Riscrivere un capolavoro. Un’operazione semplice semplice finché la sua comprensione viene data per scontata. Negli anni Novanta nelle scuole di scrittura (e purtroppo anche nelle scuole superiori) si insegnava a smontare un testo. Un testo era un giocattolo di cui era necessario capire soltanto una cosa: dove stavano le viti. Erano i cascami della vulgata strutturalista.


MONTAGNA/ Dall'Argentera al Tricorno, le Alpi di Camanni: 30 cime e un "mondo" da salvare


Peccato che le cose non stessero così. Va dato atto ad Alessandro Baricco di avere, a quei tempi, sottolineato come lo smontaggio in parola si possa fare tranquillamente finché l’opera presa in considerazione è di livello modesto (tale a suo parere il Guglielmo Tell di Rossini) mentre con i capolavori il giochetto s’inceppa.

Ma dagli anni Novanta a oggi le persone sono diventate molto più intelligenti, tutto può servire per dire tutto, e sapete perché? Perché è tutto un gioco, un fottuto maledettissimo gioco, perciò diamoci dentro. C’è solo un piccolo problema, ed è questo: che la fantasia non perdona chi la usa. Divertiamoci pure, naturalmente, ma non illudiamoci che quello che facciamo – di qualunque cosa si tratti – non ci segni a fuoco. La letteratura, d’intrattenimento finché si vuole, è questa cosa.


LETTURE/ "Il Papa delle cose nuove", capire l'enigma-Prevost tra codici binari e Agostino


Il gioco, voglio dire, risulterà inoffensivo solo fintantoché di fantasia se ne userà pochina, come nell’esempio riportato in un pezzo del “Corriere della Sera”, in cui, timidamente, l’incipit di Anna Karenina viene ricalcato sulla descrizione di un casino scoppiato in una classe di liceo. L’attacco, «Tutte le classi disciplinate sono simili fra loro, ogni classe indisciplinata è indisciplinata a modo suo» è un piccolo gioiello di mancanza d’inventiva. Copiare, infatti, è bello (perché in fondo di questo si tratta) con la clausola però che la copia stia – magari spavaldamente, presuntuosamente, provocatoriamente, pretestuosamente, antipaticamente – all’altezza della cosa copiata.

 

Per copiare infatti occorre essere molto giovani (fuori o perlomeno dentro) e stare, in forza della giovinezza, sotto il riparo, sotto l’ombrello atomico di una presunzione amabile perché ancora sapida di latte materno. E solo quando si è molto giovani si può credere di poter stare all’altezza di Tolstoj, e anzi, in qualche modo proprio questa sfacciataggine ci ottiene il risultato sperato, ci fa fare bingo, ossia ci spalanca le porte che l’abilità, la lunga militanza letteraria, l’acume critico e l’erudizione non ci consentiranno mai.

Il fatterello da cui partono queste considerazioni è troppo piccolo per prestarsi a considerazioni di carattere generale, sulla perdita di creatività della letteratura, sulla deriva delle scritture, sul labirinto della narrativa e sulla disseccata vena del romanzo. Diomio, cerchiamo di non aggiungere una tonnellata di barba a questa graziosa stupidaggine.

Certo, anche la permanenza nella dimensione del piccolo, dell’individuale, del frammentario qualcosa ci permette di osservare. Le librerie sono invase da prodotti letterari chiamati romanzi, fondati su un patto di non belligeranza tra scrittore e lettore. Quella che è sempre stata una guerra – la letteratura è una guerra, il testo letterario è un campo di battaglia – si è trasformata in un (sospetto) patto di mercato, un po’ come succede con l’UE, che si fonda su un amore tra Francia e Germania che non è mai esistito.

Intanto la letteratura scava le sue gallerie nelle profondità del web, attraversando le diverse esperienze mediatiche, pasticcia tra scrittura e immagine, crea narrazioni simili a blog e blog simili a romanzi, insomma cerca nuove strade visto che le vie tradizionali sono ingombre di paccottiglia. Il paesaggio della letteratura odierna è simile a quello di una città post-atomica, dove nulla in realtà corrisponde a quello che le carte topografiche continuano a indicare: quelle vie, quei viali, quelle piazze, quegli edifici amici è semplice: non esistono più.

 

 

È dalle gallerie, dalle tane, dai cunicoli scavati nelle macerie, è dalle contaminazioni trovate (e non da quelle progettate a tavolino dai cacciatori di aquiloni) che potrà spuntare il nuovo romanzo. Un romanzo o è imprevisto o non è.

Per il resto, che v’aggio a di’? Copiate ragazzi, copiate, razziate Dostoevskij, Proust, Mann e chi altro vi pare. Però tenete alta, alta, alta la fantasia, spingete al massimo la vostra faccia tosta. Solo così vi divertirete davvero. Almeno avrete fatto i pazzi, e Dio sa se c’è bisogno, nella letteratura di oggi dominata dai ragionieri, di un filo di follia.


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