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Home » Cinema e Tv » IL CLAN/ Dall’Argentina un film “atroce” per riflettere

  • Cinema e Tv

IL CLAN/ Dall’Argentina un film “atroce” per riflettere

Roberto Bernocchi
Pubblicato 31 Agosto 2016
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Una scena del film

Il film di Pablo Trabero, premiato con il Leone d'Argento a Venezia lo scorso anno, è un'impietosa sferzata sulla coscienza universale, spiega ROBERTO BERNOCCHI nella sua recensione

Argentina, 1982. Mentre il Paese si appresta a vivere un capovolgimento di potere, che lo porterà dalla dittatura alla democrazia, la famiglia Puccio cerca di mantenere i suoi privilegi borghesi, conquistati al servizio del regime militare. Al comando del Clan c’è Arquìmedes, a un tempo padre di famiglia affettuoso e spietato assassino, che costruisce il suo benessere sul riscatto chiesto alle famiglie delle persone che sequestra, con la complicità, più o meno consapevole, del figlio Alejandro e della sua famiglia. Ma il cambiamento è alle porte e la sua colpevole fortuna sarà presto smascherata. Un ritratto crudo e toccante di un Paese allo sbando: è l’Argentina dei primi anni ’80. Sono gli anni di passaggio dalla dittatura a una timida democrazia, raccontati con grande sensibilità registica da Pablo Trapero, stimato professionista argentino, più volte premiato dalle giurie internazionali. Il Clan si conquista meritatamente il Leone d’argento alla 72° Mostra di Venezia (2015) entrando nel quotidiano dei Puccio, all’apparenza una famiglia normale che, in breve tempo, rivela un’anima malavitosa e inquietante.


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La storia è di per sé incredibile e il film ha il grande merito di raccontarla lasciando emergere diversi piani di lettura. C’è quello politico, tracciato con piccoli cenni, sufficienti a far trapelare tutti i contorni di uno scenario corrotto, ingiusto e devastato. C’è quello familiare, che lascia emergere i complessi meccanismi relazionali di una famiglia che fonda la propria sopravvivenza sul ricatto emotivo di Arquìmedes, il centro del Clan di cui tutti sono vittime. C’è infine un piano sociale, che porta l’attenzione sulla crisi e, con essa, sul rischio per una famiglia borghese di perdere il proprio status. Legati a doppio filo al decadente regime militare, i Puccio cercano nuove vie per sopravvivere nell’agio. Il tranquillo focolare domestico rivela una faccia spietata e calcolatrice, che miete vittime nella cerchia delle proprie conoscenze. Gli insospettabili vivono nella menzogna, insensibili al dolore dispensato e immuni ai tarli della coscienza.


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Nelle pieghe del racconto si apprezza più di ogni altra cosa il senso dell’ineluttabile, della responsabilità rimossa, che soffoca i Puccio nel silenzio omertoso e li condanna sul drammatico confine della colpa. Vittime o carnefici?

 Il viso di Guillermo Francella (Arquìmedes) si piega ai bisogni del momento, trasformandosi da affettuoso capofamiglia, ad astuto faccendiere, a spietato assassino privo di qualunque scrupolo, pronto a difendere un territorio. A ben vedere, in lui comanda non tanto l’istintiva difesa della “specie”, quanto piuttosto un sovrumano egoismo delirante e onnipotente, che compiace se stesso. Quando alza la voce, sul figlio complice di comodo, rimuove dalla sua coscienza i dubbi dell’orrore, per riconsegnare alla strada un docile missionario di morte.


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Un racconto atroce, che non ricorre ad alcun eccesso cinematografico. Un film drammatico che sconfina nel thriller e che lascia solo immaginare l’horror. Pur essendo un ritratto fedele della crisi argentina, raccontata proprio in quell’essere a metà tra il passato e il futuro, Il Clan è un’impietosa sferzata sulla coscienza universale. Interroga le famiglie (e i propri equilibri fondati spesso su ricatti quotidiani), inquieta chi gli sta intorno (spesso incapace di vedere la verità oltre alle apparenze), sollecita il Sistema (che coltiva potere e corruzione per alimentare se stesso), e infine provoca i cittadini del mondo e ancor di più l’Italia, culla di malavita organizzata (che convive silenziosamente con il male).

Tra Italia e Argentina c’è di mezzo un oceano, ma tutto questo non sembra poi essere così lontano. C’è di che riflettere e di che discutere, nella speranza di scuotere la sorda coscienza contemporanea, che cerca affannosamente le colpe sempre fuori dai propri confini.


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