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Home » Cinema e Tv » BEIRUT/ Il film che usa la Storia per creare un racconto

  • Cinema e Tv

BEIRUT/ Il film che usa la Storia per creare un racconto

Emanuele Rauco
Pubblicato 2 Agosto 2018
Beirut-film_web

Una scena del film

In questa estate può valere la pena vedere alcuni film inediti o poco visti che si possono recuperare sulle piattaforme online. Come nel caso di Beirut. Ce ne parla EMANUELE RAUCO

L’estate per molti significa l’opposto del cinema, ma non necessariamente di un film. E allora dedichiamo un po’ di spazio ad alcuni titoli inediti o poco visti che si possono tranquillamente vedere sulle piattaforme on line. 

Che fine ha fatto il cinema medio, ovvero quello che cerca un pubblico e una modalità di realizzazione e produzione lontana tanto dai blockbuster quanto dagli indipendenti a basso costo, in cui la ricerca di un pubblico un po’ più consapevole potesse essere proficua? Schiacciato dalla moderna macchina produttiva, ha trovato posto spesso nella serialità televisiva, faticando a trovare spazio nella distribuzione cinematografica, a meno che non si tratti di autori affermati. Non è il caso di Brad Anderson e del suo Beirut, che dopo una distribuzione disastrosa nelle sale arriva in Italia grazie a Netflix. 


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Il film è una spy story in cui un diplomatico nella Beirut degli anni ’70 si vede la moglie uccisa dal fratello terrorista del ragazzino che avevano adottato; 10 anni dopo, tornato negli Usa e con una vita fin troppo tranquilla, l’uomo è costretto a far ritorno in Libano perché per negoziare il rilascio di un amico rapito, i rapitori hanno chiesto lui e lui soltanto. 


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Scritto da un esperto del genere come Tony Gilroy (Michael Clayton, Duplicity, la serie di Jason Bourne), Beirut è un dramma spionistico sulla scia di Argo, la cui sceneggiatura – in ballo dal 1991 – è stata messa in produzione solo dopo il successo del film di Ben Affleck. Ma rispetto a quello, Beirut è meno scanzonato e spettacolare, meno teso e più attento alla costruzione, soprattutto alla descrizione di un contesto storico, geografico e politico che, fatti i conti con la finzione e il romanzesco, funga da riflesso retroattivo dell’attualità. 

Perché il Libano e la città di Beirut in particolare sono da molto tempo gli aghi della bilancia di tutte le politiche statunitensi ed europee riguardo i tumulti mediorientali e Anderson mostra la città prima e dopo la guerra civile, imbastendo un complicato intreccio i cui echi risuonano ancora oggi: tutto si tiene e ora come allora gli Usa sono tanto burattinai quanto burattini, alla mercé di ingranaggi e meccanismi che hanno creato e spesso controllato e il film usa la Storia e le sue crisi per tessere un racconto. 


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È in questo modo di raccontare che Beirut afferma il suo essere cinema medio in tutto e per tutto, nel bene e nel male: calibrato nei ritmi, con personaggi ben scolpiti che diventano la chiave della suspense, e poi quella piacevole aria di classico moderno, di Milius in minore con i temi della seconda chance, dell’uomo tra due fuochi, delle istituzioni infingarde e del rispetto tra guerrieri al di là della bandiera. 

Di contro, in Beirut troviamo una certa piattezza stilistica ed estetica, la mancanza di azione e inventiva – che pur Anderson mostrò nei suoi film passati, come Session 9, L’uomo senza sonno e Vanishing on 7th Street -, una limitatezza di respiro potremmo dire. Con una formula: più Netflix, meno Le Carré. Eppure Anderson è un professionista abbastanza navigato da riuscire a rendere in modo adeguato una storia e una narrazione intriganti, tra le quali filtra il sentire contemporaneo. È ciò che un tempo si chiedeva a un film medio, prima che la categoria divenisse protetta. 


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