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Home » Educazione » SCUOLA/ Quando bocciare è una sconfitta dell’insegnante

  • Educazione

SCUOLA/ Quando bocciare è una sconfitta dell’insegnante

Rosario Mazzeo
Pubblicato 4 Giugno 2019
scuola_studenti_2_lapresse_2016

(LaPresse)

Spesso la bocciatura è come una medaglia con due facce: l’impreparazione dell’alunno e l’impotenza dell’insegnante. Ma bocciare è “pro-muovere”

Bocciare è parola presa in prestito dal gioco delle bocce: è colpire con una violenta bocciata la palla dell’avversario e respingerla lontano dal boccino, che spetta al vincitore. Oggi la scuola paradossalmente rispetto al passato “colpisce e respinge” di meno. Non è questo però il problema. Il male della scuola non è la bocciatura, ma la non-promozione. Non quando bocciano sbagliano i docenti, ma quando non promuovono veramente, forse pensando di avere a che fare con teste simil legno e non con persone.


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Uno studio Ocse-Pisa del 2009 sul rapporto tra bocciature nella scuola e costo economico che i Paesi devono sopportare (“When students repeat grades or are transferred out of school: what does it mean for education systems?”) fa ancora discutere, soprattutto in questo periodo.

La ricerca offre, come capita spesso nel caso di confronti internazionali, considerazioni piuttosto nette e taglienti: “Nei Paesi in cui un maggior numero di studenti ripete gli anni scolastici, la performance globale tende a essere inferiore, e il background sociale ha un impatto maggiore sui risultati di apprendimento che in Paesi in cui meno studenti ripetono”.


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Secondo i dati Pisa, il 13-15% degli studenti nell’area Ocse dichiara di essere stato bocciato almeno una volta: il 7% alle elementari, il 6% alle scuole medie inferiori e il 2% alle superiori.

I numeri variano molto tra i diversi Paesi: in Gran Bretagna e Finlandia la percentuale di allievi che hanno ripetuto almeno un anno è inferiore al 3%, in Giappone è vicina allo zero, in Francia e Belgio supera il 30%. L’Italia è ventiduesima nella classifica dei più severi, con una percentuale di allievi bocciati almeno una volta del 18% circa, appena al di sopra della media.

Una strana medaglia. Posto che la selezione non è lo scopo della scuola, bensì quello di “fornire allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà”, come recita il profilo culturale, educativo e professionale dei licei, occorre dire che all’esito infausto dello scrutinio si giunge spesso per un malinteso concetto di libertà, per cui allo studente è consentito talvolta di non impegnarsi (“Sono fatti suoi”) e all’insegnante di non compiere i passi necessari per aggredire l’insuccesso dell’allievo alla sua radice (“Deve capire che ha sbagliato scuola e in ogni caso io docente non sono tenuto a salvarlo ad ogni costo”).


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In questo modo la bocciatura è come una medaglia con due facce: l’impreparazione dell’alunno e l’impotenza dell’insegnante. Bocciature e alti tassi di dispersione scolastica sono sintomi di sistemi scolastici protesi più all’esclusione che all’inclusione, di pratiche didattiche in cui la valutazione è prigioniera del “doppio”, di cui descrivo le azioni nel volume La valutazione liberata.

Promuovere: ecco la mission di una scuola che si pensa e si organizza come luogo e tempo della persona e per la persona; una scuola dove l’insegnante si pone con tutta la sua vivacità umana ed esige che anche gli studenti ci siano con la testa e il cuore.

La differenza tra una scuola che boccia e una che promuove è tra il docente neutrale, che vive la sua professione da funzionario statale, e l’insegnante “magisteriale”, cioè capace di condividere e produrre segni efficaci di apprendimento. È l’insegnante che si pone come persona e tratta gli alunni come persone, cioè pratica la personalizzazione.

Sto parlando di promozione non tanto nel senso di “far passare alla classe superiore a quella che l’alunno sta frequentando”, ma nel senso di “far crescere la persona”.  Per cui la bocciatura può e deve essere feconda: deve “promuovere”, cioè favorire la “mossa” dello studente, rimetterlo in “moto” sia che ripeta l’anno sia che passi alla classe successiva.  È una questione di personalizzazione.

Personalizzare è pro-muovere: agire con (non solo per l’alunno); con questo alunno, fino al punto di scegliere di cooperare (come del resto è suo dovere professionale) con gli altri docenti e i genitori perché questo alunno sia continuamente pro-vocato all’azione e possa dire “io ci sono”, “io ci sto” “io non ci sto”.

In verità, molto spesso, nella teoria e nella pratica del “fare scuola”, viene “bocciata” proprio la persona, le cui dimensioni sono respinte o negate sia nella globalità dei suoi fattori sia nella concretezza dei suoi elementi, perché vengono percepite e riproposte secondo logiche quantitative, economicistiche, burocratiche.

Magari non si arriva a parlare di teste di legno. Nell’era delle tecnologie avanzate il modello con cui paragonare l’umano è molto più sofisticato. Allora si parla di cervelli come computer, di intelligenza collettiva, di web umano. Il risultato rischia di essere lo stesso: non si ammette che l’insegnare e l’imparare abbiano come meta, che illumina ogni istante del cammino, la soddisfazione del cuore della persona, che è fondamentalmente “une demande de signification e d’information de plus en plus riche” (Nuttin).

Promuovere non è cosa facile. Richiede una professionalità capace di mettere in circolo il di più (magis) in “spirito e verità” con la forza che il rischio comporta. L’ora di lezione del docente magisteriale è l’ora del rischio, ovvero della necessità di far prendere posizione agli studenti: “sì o no”, e “farli” muovere, intraprendere, vivere responsabilmente lo studio. Questo, per esempio,  comporta che l’insegnante abbia uno sguardo e viva la consapevolezza che non ha davanti delle teste di legno, ma persone che, anche quando hanno la maschera dell’indifferenza, soffrono in realtà la fame e la sete di un significato.

In conclusione, se è vero che la bocciatura talvolta è il risultato di una scelta per il disimpegno da parte dell’alunno, è anche vero che spesso è il sintomo della impossibilità dell’insegnante di percorrere metodi diversi da quelli imposti da un certo cliché.


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