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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Rabboni, la nostra ferita lascia passare la luce

  • Letture e Recensioni
  • Cultura

LETTURE/ Rabboni, la nostra ferita lascia passare la luce

Massimiliano Mandorlo
Pubblicato 18 Giugno 2019
Vincent Van Gogh, Campo di grano con cipressi (1889), particolare

Vincent Van Gogh, Campo di grano con cipressi (1889), particolare

L’esordio poetico di Livio Rabboni (“Carne della fine”) avviene sotto il segno di Celan, di cui Rabboni recupera il tema della ferita nostra e delle cose

L’esordio poetico di Livio Rabboni (Piacenza, 1974) per i tipi di LietoColle avviene sotto il segno di Paul Celan, i cui versi ritornano in apertura alle varie sezioni di Carne della fine come a delineare un percorso. Del simbolismo e della scrittura “franta” e “occulta” del poeta della Bucovina, riemersa dalle macerie della Seconda guerra mondiale, Rabboni recupera in primis il grande tema della “ferita”, operante a livello esistenziale e linguistico.


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Si tratta infatti, come per Celan (che in Dialoghi con cortecce cantava la propria volontà di essere “così / nudi e vicini alla lama”) di fare i conti con quella posizione vertiginosa della parola poetica che conduce in territori percorsi da faglie e fenditure, sospesi su crinali e abissi. La frattura a cui va incontro il soggetto è declinata nel libro in numerosi campi semantici: il cielo “visto senza slogature, all’una pomeridiana”, in un ritratto invernale “la punta scavata di ghiaccio e neve / impressa come una traccia / una ferita dell’ombrello sul marciapiede”, la “calma falcidiata delle nubi”, la “ferocia friabile” e le “contratture dell’acqua”, il “sole mutilato”, la lenta “frana dei ronchi nei polmoni” in un padiglione ospedaliero e ancora il “taglio vivo dell’acqua”, la “ferita di piombo” e infine la “pietà del muschio indifesa” che “ferisce” la “vita inesplosa del ghiaccio”.


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Un libro alto e compatto in cui, in una lingua e uno stile sorvegliati ma ricchi di tensioni e inarcature, siamo condotti attraverso la geografia personale dell’autore: le “acacie in direzione di Milano” o quelle di via Mazzini a Piacenza, le alture di Genova, il cielo di Vienna fino a toccare l’estremo, stupefacente Giappone con la sua “forma risolta dell’impermanenza”.

Rabboni ci accompagna a contemplare, attraverso la finitezza dei nostri giorni, un dolore vissuto e percepito nella “carne” dell’uomo, nel mondo e nei suoi elementi (natura, oggetti, corpi): “Ha cominciato a piegare la schiena mio padre / come la felce, come i salici ostinati al destino / del vento”. Spes contra spem, in un percorso di instancabile ricerca (Quaerendo invenietis si intitola appunto, tra esortazione evangelica e allusione al Bach dell’Offerta musicale, uno dei testi conclusivi della raccolta) anche la “ferita” può trasformarsi in crepa attraverso cui lasciare passare la luce: “un varco di frontiera – aperto a mezzogiorno – / separa il finito dal corpo del male”.


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Ed è solo nella prospettiva di una “fede bambina” ritornata “nelle folate del cuore” che le parole ferite di Rabboni sembrano ritrovare il loro respiro cristiano alla ricerca di una speranza (difficile e agonica, in perenne tensione: “il verde più vivo / intorno al legno degli scomparsi”) che le sollevi dalla tragicità di un “destino sazio e chiuso”. Così, come in una anastasis bizantina, la discesa nelle buie profondità degli abissi è anticipo di quella luce che scardina il buio, sottraendo terreno alla notte: “un corridoio di luce stende l’eterna sutura / che strappa ferite all’egemonia della notte”. E le “promesse” a lungo attese e inseguite trovano il loro compimento in una possibilità di riscatto e rinascita, nella “feritoia perfetta / il mattino di Pasqua” da cui filtra quella luce capace di investire anche le “parole crollate” della nostra umana lingua. Donandole la forza, la grazia del canto:

Si specchia la tregua indivisa dell’acqua
negli occhi calmi, saziati del gufo
l’istante sigillato del mare
balbetta i suoi sogni sulla spiaggia:
un soffio per ascoltare,
un canto per tacere. un canto per tacere.
La fronte dei gabbiani
trattiene il cielo che ci separa:
la mia sorgente di   la mia sorgente di quiete
                                    il tuo sentiero di gioia


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