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Home » Cronaca » SENTENZA DJ FABO/ “Se siamo amici non è istigazione al suicidio”: eutanasia “legale”

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SENTENZA DJ FABO/ “Se siamo amici non è istigazione al suicidio”: eutanasia “legale”

Paola Binetti
Pubblicato 26 Novembre 2019
consulta

La Corte Costituzionale (Lapresse)

Pubblicata la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo. Che di fatto legittima la possibilità di mettere fine alla vita anche di pazienti non terminali

È stata finalmente pubblicata la sentenza della Corte costituzionale relativa alla vicenda che lega Marco Cappato e Dj Fabo. La sentenza offre una chiave di lettura più completa rispetto allo scarno comunicato stampa del 24 settembre. Ma in definitiva legittima, a determinate condizioni, la possibilità di ricorrere all’eutanasia!


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Lo fa attingendo a motivi di umana pietà, come solo legami affettivi forti sanno suscitare, e per questo distingue tra suicidio assistito e istigazione al suicidio. Ossia tra l’accompagnamento alla morte di una persona per cui dolore e sofferenza sembrano diventate insopportabili, per cui non c’è più voglia di vivere, e l’azione sottile e persuasiva con cui una persona sollecita un’altra a mettere fine alla sua vita, mostrandone tutti i limiti.


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La sentenza nel suo articolato ripercorre la vicenda di Fabo, descrivendo la gravità della sua situazione e l’inutilità dei tentativi fatti per cercare soluzioni alternative. Descrive Cappato con grande indulgenza e magnanimità; come l’amico che ha accompagnato Fabo in Svizzera e gli è stato vicino fino alla fine, anche per raccogliere eventuali cambiamenti d’idea. L’interpretazione che la sentenza fa di questo atteggiamento sorprende, proprio perché sembra esaltare in Cappato tutte le virtù dell’amicizia, dimenticando che è stato proprio lui a far di tutto per facilitare in Fabo non solo la conoscenza della clinica svizzera, ma anche le possibilità e le modalità di ricorrere all’eutanasia in Svizzera.


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La sentenza sottolinea come Fabo abbia poi fatto tutto da sé, schiacciando la famosa pompetta e ingerendo il veleno. Ma per giustificare Cappato omette di dire che tutto è stato possibile proprio per l’intensità e la costanza del suo solerte accompagnamento, passo dopo passo. Dice la sentenza: “Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale”. Atteggiamento difficile da affiancare a quanto dice poco dopo la stessa sentenza: “quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia”. È oggettivamente difficile, pensando ad altre possibili situazioni analoghe, valutare se si tratta di un semplice accompagnatore o di qualcuno che sta svolgendo un ruolo di persuasore.

Tra gli altri paletti previsti dalla sentenza per limitare il ricorso all’eutanasia c’è il ruolo fondamentale del ricorso alle cure palliative. Cure palliative sì, ma anche ricorso alla sedazione profonda intesa e interpretata come anticamera dell’eutanasia.

Ma a questo punto diventa fondamentale chiedersi chi giudicherà della loro efficacia o della loro inutilità. Chi deciderà che è giunto il momento di sospenderle, aprendo le porte a una eutanasia attiva, come quella in uso in Olanda, che prevede la somministrazione di un farmaco letale. Sarà possibile bilanciare etica della cura e principio di autodeterminazione del paziente?

Comunque la si guardi questa sentenza, alla pari con la precedente ordinanza appare una porta aperta su tutti i rischi di una eutanasia che con il tempo assomiglierà sempre di più a quanto sta accadendo in Olanda. E quindi potrà coinvolgere anche pazienti in condizioni ben diverse da quelle ambiguamente segnalate nella sentenza, che appare assai meno restrittiva di quanto forse non vorrebbe!

Eppure tutto è cominciato con quella brutta legge sulle Dat, che per la Corte ha rappresentato una vera e propria traccia da seguire per giustificare una scelta che non possiamo e non vogliamo condividere. Quando due anni fa in Parlamento sollevammo tutte le possibili obiezioni alla legge 219 evidenziandone i rischi, fummo aggrediti da colleghi di vario schieramento che consideravano la nostra posizione come inutilmente sospettosa di conseguenze gravide di rischi per tante persone malate e niente affatto terminali.

La Corte ha confermato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che avevamo ragione e tutta la vicenda, compresi i nomi di chi disse no, è raccontata in un volume dal titolo molto suggestivo, Il ruolo dei cattolici in politica alla luce del dibattito sulle Dat. Un’esperienza particolarmente interessante in questi tempi in cui tanto si torna a parlare del ruolo dei cattolici in politica e della grande utopia del partito dei cattolici.

E non a caso l’Ordine dei medici ha detto un no chiaro e tondo a questa nuova drammatica incombenza che dovrebbe ricadere sul Ssn. Meno male che la sentenza sembra escludere il carattere di obbligatorietà per la classe medico-infermieristica, ma anche questo lo vedremo col tempo.

Per ora quel che è certo è che l’Ordine dei medici ha detto un no chiaro e fermo a trasformare l’ars medica in scienza della morte.


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