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Home » Cinema e Tv » DIAMANTI GREZZI/ La tragedia dell’errore che fa brillare regia e Adam Sandler

  • Cinema e Tv

DIAMANTI GREZZI/ La tragedia dell’errore che fa brillare regia e Adam Sandler

Emanuele Rauco
Pubblicato 12 Febbraio 2020
Una scena del film

Una scena del film

Il film dei fratelli Josh e Benny Safdie funziona bene, grazie al lavoro lavoro di regia e a quello dell’attore protagonista Adam Sandler

Potremo definirla una tragedia dell’errore, estremamente contemporanea laddove quella classica invece aveva a che fare con il destino, con il volere degli dei a cui gli uomini cercavano invano di contrapporsi. Diamanti grezzi (Uncut Gems) gioca con questi presupposti – ma anche con una tradizione novecentesca come sottolinea Manassero su FilmTv citando Bellow ed Hemingway – per portare al punto di ebollizione la poetica, l’estetica e il senso del racconto dei fratelli Safdie (Josh e Benny) al secondo lungometraggio, ma già capaci di segnare il cinema contemporaneo, se è vero che hanno portato Netflix ad acquistare il titolo per distribuirlo fuori dal circuito anglosassone.


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La tragedia del film è, per dirla con Bertolucci, quella di un uomo ridicolo, Howard Ratner, gioielliere di New York, traffichino e arruffone, convinto di potersela cavare sempre, rischiando nei modi più clamorosi. Quando riesce a mettere le mani su un grosso opale etiope pianifica di venderlo all’asta per 1 milione di dollari, ma i suoi debiti, le cattive frequentazioni e un campione di basket (Kevin Garnett, in un ruolo offerto in principio a Kobe Bryant) renderanno tutto tremendamente difficile.


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Assieme allo sceneggiatore Ronald Bronstein, i Safdie partono da presupposti narrativi simili al loro precedente film Good Time (anch’esso disponibile su Netflix) e vi costruiscono sopra un dramma noir in cui le influenze di genere cedono il passo a una narrazione più ampia, complessa, stratificata che ricorda il miglior cinema anni ’70, ma che i registi non ricalcano ma interpretano come un sentimento, un’ispirazione.

A partire per esempio dal lavoro sui dialoghi e sul sonoro, con i dialoghi velocissimi e sovrapposti, il cosiddetto overlapping portato allo stato dell’arte da Altman, che assieme ai suoni e ai rumori del caos circostante riverberano quello del protagonista. Il vero miracolo di Diamanti grezzi è però nel modo in cui tanto la narrazione quanto il senso generale che ne è alla base non nascano da un impostazione classica, romanzesca o drammaturgica, ma sembra che vengano di conseguenza: c’è una situazione iniziale che precipita e il film segue questa cascata, affiancandosi allo spettatore, creando attraverso questa rincorsa alla sopravvivenza l’empatia.


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La tensione strisciante del film pare nasca spontanea perché erompe direttamente dal personaggio di Ratner, perché è meticolosamente costruita più con la macchina da presa e i suoi movimenti (cinematografia di Darius Khondji e straordinario lavoro dell’operatore Maceo Bishop) che con gli strumenti classici della suspense, come il montaggio (notevole in ogni caso, firmato da Bronstein e Benny Safdie, ovvero due degli sceneggiatori, a riprova del metodo puramente filmico di raccontare) che fa capolino solo nella scena chiave della partita di basket. Sono i movimenti di macchina a costruire il racconto, è la camera a definire e approfondire i personaggi, a raccontare un mondo ingovernabile in cui provare un po’ di affetto per personaggi stupidi ma mai domi, è la regia a rifuggire da psicologie e forzature per far vibrare quell’universo narrativo: sta qui la bellezza di Diamanti grezzi, che la sera prima degli Oscar ha vinto 3 premi agli Indipendent Spirit Awards, i premi del cinema indipendente.

Tra i quali quello al protagonista, Adam Sandler, di cui il film rappresenta un nuovo rilancio, quasi fosse uno specchio di Ratner dopo tante scelte sbagliate o sfortunate: scritturarlo in un ruolo alla Pacino è un atto di coraggio, ma rendere il film un tour de force intorno alla sua figura è una follia che i fatti hanno ampiamente ripagato.


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