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Home » Cronaca » LA STORIA/ “Solitudine, paura e fede: i miei 40 giorni in terapia intensiva”

  • Cronaca

LA STORIA/ “Solitudine, paura e fede: i miei 40 giorni in terapia intensiva”

Int. Romano Colozzi
Pubblicato 1 Giugno 2020 - Aggiornato alle ore 09:42
Terapia intensiva Covid logopedisti

Un reparto di terapia Intensiva Covid (LaPresse)

Cosa vuol dire essere ricoverato per Covid-19 e arrivare quasi alla morte? Ce lo racconta un paziente guarito

“Avevo l’identikit per non guarire, per essere il classico paziente a rischio: età avanzata, patologie pregresse. Avevo paura di morire, ma non tanto paura della morte, quanto di non riuscire più a vedere i miei familiari prima di andarmene”. Romano Colozzi, di Cesena, ex assessore al Bilancio delle giunte Formigoni, è una delle migliaia di persone colpite dal Covid-19. Un ricovero lungo più di un mese e poi, improvvisamente, la guarigione, con la malattia che è andata scemando da sola, “vissuta in totale solitudine, sapendo di trovarmi davanti a una patologia sconosciuta non solo a me, ma anche ai medici cui erano affidate la mia vita e la speranza di guarigione”.


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Quando e come ha cominciato a sentire i primi sintomi?

Era il 9 marzo, avevo una semplice febbre che con la tachipirina scendeva e risaliva, non pensavo assolutamente al coronavirus, convinto fosse la solita influenza. Questo forse mi ha fatto ritardare un po’ il ricovero. Sono andato avanti con questa febbre per circa una settimana. 


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Aveva problemi di respirazione?

No, né tosse né raffreddore, l’unica cosa era la sensazione di respirare a pieni polmoni con difficoltà. La cosa determinante che mi ha fatto decidere di telefonare al medico di base è che avevo il saturimetro a casa, l’ho provato e la saturazione era molto bassa. C’era un problema di ossigenazione, perciò il mio medico ha chiamato l’ambulanza. Al pronto soccorso mi hanno fatto gli esami e mi hanno ricoverato.

Cosa hanno scoperto?

Dagli esami ai polmoni è risultato che avevo una polmonite molto rilevante e lì è cominciato un decorso lungo 40 giorni.


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Questo ci fa capire come mai tante persone non si siano rese conto di essere contagiate fino a quando è stato troppo tardi. Il suo ricovero è avvenuto nel periodo peggiore dell’epidemia. Come è cominciato?

In quel periodo sulle terapie si andava un po’ a tentativi, mancavano gli elementi utili che sono emersi in seguito.

Era consapevole dei tanti decessi, della situazione drammatica?

Sì, assolutamente. Quando sono stato ricoverato era previsto un percorso preciso. All’inizio si entrava in un reparto chiamato pre-Covid, dove si vedeva come reagiva il paziente. Poi si era trasferiti nel reparto pre-intensivo, in cui cominciavano a dare un aiuto di ossigeno per respirare meglio. Nel giro di un giorno e mezzo avevo bisogno di sempre più ossigeno e mi hanno messo in medicina intensiva.


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Dove si usano i caschi ossigenatori?

Ero in una stanza, sempre da solo, vedevo solo i medici e gli infermieri quando dovevano fare qualcosa al mio povero corpo. C’ero solo io non intubato, gli altri erano tutti intubati e sedati. Il lavoro dei medici è stato quello di evitare di dovermi intubare.

Come?

Hanno provato in tutti i modi, perché non c’erano farmaci risolutivi: gli antivirali, poi il farmaco per l’artrite reumatoide, poi l’eparina, il cortisone. Io non rispondevo a nessuno di questi. A distanza di otto giorni dal ricovero, eseguendo una radiografia, è venuto fuori che stavo peggio che all’inizio. Hanno avuto l’impressione che avrei potuto anche non farcela, che ero davvero in bilico.


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Glielo hanno detto? E come ha vissuto quel momento?

Non ero del tutto lucido, l’ho scoperto solo quando sono tornato a casa. Prima, ogni tanto, mandavo messaggi ai familiari e quando sono tornato mia moglie e i miei figli mi hanno detto: guarda che per cinque giorni non ti sei fatto vivo, per fortuna siamo riusciti a parlare con l’ospedale. Io non me ne ero reso conto, ma in effetti nel cellulare c’è un buco di cinque giorni. Mi hanno messo la testa nel casco che ossigena e quella è stata una esperienza davvero dura.

Lo hanno detto tutti: una grande sofferenza. È così?

Diverse persone facevano fatica a tenerlo, sei dentro a questo scafandro con un rumore molto forte causato dall’ossigeno che entra al suo interno. Le giornate sono eterne, fai fatica a dormire. Chiedevo al medico di togliermelo qualche ora, mi diceva: deve tenerlo, altrimenti dobbiamo intubarla. Poi, improvvisamente, dal giorno dopo, piano piano, hanno diminuito le ore.


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Stava recuperando la sua capacità respiratoria?

Sì, un po’ di capacità respiratoria autonoma, fino a quando il bisogno di ossigeno è stato talmente basso da poter farmi tornare al reparto di ingresso. Hanno continuato a darmi l’ossigeno, ma in quantità minori. Sono stato trasferito nella pre-intensiva, poi nella medicina normale e gli ultimi dieci giorni in una sorta di reparto Covid dove c’era sì gente con il contagio, ma finalizzato alla riabilitazione.

Le hanno spiegato come ha fatto a guarire?

Mi sento un miracolato. Io avevo tutte le caratteristiche per non guarire.

Anche la solitudine deve essere stata una dura prova.

Una esperienza insolita. Ero già stato ricoverato in passato, con la possibilità che ci stesse sempre qualcuno a farmi compagnia. Lì invece sei da solo, in una stanza con le macchine a cui sei collegato, l’unica possibilità di interloquire è attraverso i messaggi telefonici. Una esperienza lunga, 40 giorni, e strana. Per chi, come me, ha la fede il tempo era riempito dalla preghiera. La solitudine era meno forte, la preghiera non è dire delle parole, è vivere a tu per tu con una Persona. Era solitudine rispetto al modo ordinario di relazionarsi, ma non era una solitudine totale. Da questo punto di vista un momento di grande grazia.

Ce lo spieghi meglio.

Avendo molto tempo per stare con te stesso magari intuisci o cogli degli aspetti della tua fede che in altre condizioni hai percepito di meno.

Mentre noi vivevamo l’isolamento in casa con noia e rabbia, lei ha vissuto un isolamento che l’ha messa faccia a faccia con il mistero. Ne ha colto il senso?

C’è stato un momento in cui ero davvero convinto che sarei morto, senza poter salutare mia moglie, i figli, la nipotina. Ho scritto a mia moglie “non mi sento pronto”, ma non di morire, non ero pronto a quel tipo di morte. Nella stanza accanto alla mia c’era una persona che non vedevo, ma ho capito che era deceduto. Ho visto quando l’hanno portato via senza un sacerdote, senza nessun parente: mi ha davvero impressionato. Anche il Papa ha ricordato tutte queste persone. La morte è sempre una esperienza drammatica, ma così in totale solitudine, non era mai successo. L’ho visto in questa persona che è passata dal sonno alla morte in totale solitudine.

Lei ha anche detto che quello che lo sosteneva era il dialogo con una Presenza di cui era certo, ma normalmente questa Presenza è l’ultimo dei nostri pensieri.

Non facevo l’eroe, pregavo per essere liberato da questa prova, come Gesù nel Getsemani, però allo stesso tempo con il riconoscimento che la volontà di Dio è un bene per te, non ci toglie la fatica, ma dà senso a qualcosa che altrimenti non lo avrebbe. Lo dico per me, non so per gli altri, ma senza la certezza di questa Presenza, puoi pensare a questa esperienza solo come una sfortuna. La volontà di Dio assume forme misteriose e si manifesta in circostanze che uno non avrebbe mai scelto.

(Paolo Vites)

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