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Home » Politica » RECOVERY FUND/ I numeri che portano l’Europa a diffidare dell’Italia

  • Politica
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RECOVERY FUND/ I numeri che portano l’Europa a diffidare dell’Italia

Alfonso Ruffo
Pubblicato 6 Dicembre 2020
recovery

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, con David Sassoli, presidente dell'europarlamento (LaPresse)

Dario Scannapieco, vicepresidente della Bei, ha ricordato perché l'Italia è sorvegliata speciale in Europa: cresce troppo poco rispetto agli altri Paesi

Nell’intervista rilasciata per Investire (Gruppo Economy) all’autore di questa rubrica, il vicepresidente della Bei e presidente del Fei Dario Scannapieco – che condivide con il commissario Paolo Gentiloni e il presidente del Parlamento David Sassoli il compito di rappresentare l’Italia in Europa ai massimi livelli istituzionali – dice senza giri di parole che se il nostro Paese vuole davvero salvarsi con il Next Generation Eu deve agire in discontinuità con il passato.


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Da tecnico con sensibilità politica, lascia parlare i numeri per esprimere il nocciolo del problema: Dal 2000 a oggi il Pil francese è aumentato del 32 per cento e quello tedesco del 30,6; quello spagnolo del 43,4 per cento e quello medio dell’Unione senza l’Italia del 40,7 per cento. E l’Italia? Quanto è cresciuta l’Italia nel medesimo periodo? La risposta sconfortante è: del 7,7 per cento. Per questo motivo, spiega il banchiere, siamo considerati a Bruxelles dei sorvegliati speciali.


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Tutta la teoria del debito possibile in condizioni di necessità – come la tripla emergenza sanitaria economica e sociale impone -, aggiungiamo noi, non si basa più sul livello raggiunto in rapporto al Pil, ma sulla capacità di rimborso. E con percentuali di crescita di questo livello sommiamo il peso di un ammontare sempre più alto a una fragile possibilità di farvi fronte. Due criticità che dovrebbero attirare tutta l’attenzione possibile per porvi rimedio.

Se continuiamo a ragionare sulla base della convenienza politica di breve, osserva Scannapieco, condanniamo il Paese al declino. Eppure, ragiona, sappiamo bene di che cosa abbiamo bisogno per crescere. E dobbiamo mostrare la maturità di chi non aspetta il vincolo esterno (la maestra in classe che segna la fine della ricreazione, aggiungiamo noi) per fare le cose che servono: per mettere mano, insomma, alle riforme di sistema che tutti riconosciamo come non più rinviabili.


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Per accedere ai fondi del Recovery Plan, e darci una possibilità di restare nel novero delle prime economie del mondo, le regole del gioco sono ben definite. Abbiamo le capacità di rispettarle, ammette il vicepresidente della Bei, ma se adottiamo le vecchie procedure troppo spesso utilizzate per implementare i grandi progetti rischiamo di perdere il treno. Occorrono un cambio di velocità e un nuovo assetto di marcia. Una discontinuità, appunto. Ma come si fa?

Se analizziamo la composizione della spesa pubblica italiana, spiega l’economista, vediamo che negli ultimi anni si è fortemente penalizzata la componente in conto capitale per sostenere la spesa corrente. Ora, non c’è dubbio che un sostegno alla domanda sia assolutamente necessario per compensare gli effetti della crisi, ma una sana azione di governo non può fermarsi a questo stadio perché vorrebbe dire per risolvere i problemi di oggi si compromette il domani.

Il rimedio sta negli investimenti pubblici in grado di stimolare e mettere in gioco anche quelli privati e di generare nel tempo quell’occupazione sana e duratura che non può essere sostituita da alcun tipo di sussidio. Certo, con questo si dovrebbe avere la forza e il coraggio (forse anche la capacità) di abbandonare gli interessi particolari per quelli generali. Volendo concludere con le parole dall’intervistato, è necessario coniugare una visione ambiziosa a lungo termine con un grande pragmatismo per l’immediato. E qui la sfida si fa dura.


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