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Home » Cronaca » GIUSTIZIA/ La lezione del “caso Brusca” alle chiacchiere del giorno dopo

  • Cronaca

GIUSTIZIA/ La lezione del “caso Brusca” alle chiacchiere del giorno dopo

Antonio Pagliano
Pubblicato 9 Giugno 2021
Giovanni Brusca mafia

Giovanni Brusca

Giovanni Brusca è stato scarcerato in base a una legge dello Stato. Occorre evitare ogni propaganda e concentrarsi su altri aspetti tecnici, come le chiamate in correità

L’abiura al linciaggio giudiziario per fini politici ad opera del giovane ministro degli Esteri innescata dalla vicenda dell’assoluzione in appello dell’ex sindaco di Lodi, della quale non possiamo che compiacerci, non è stata purtroppo accompagnata dalla rinuncia al qualunquismo populista giudiziario.

L’uscita dal carcere di Giovanni Brusca, per avere pienamente scontato la pena, è diventata, e forse non c’era da dubitarne, l’assist perfetto per una nuova campagna di comunicazione basata su una posticcia indignazione verso la legislazione che premia i collaboratori di giustizia. “Va cambiata la norma, è un’uscita imbarazzante, vergognosa, diseducativa”, ha proclamato il leader di uno dei principali partiti politici del nostro paese, venendo a ruota seguito da un coro di voci che con varie sfumature invocava “mai più sconti di pena ai mafiosi, mai più indulgenza per chi si è macchiato di sangue innocente”.


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Come in altre analoghe occasioni, viene spontaneo chiedersi se queste voci, prima di levarsi alte nell’etere, abbiamo studiato la legge di cui parlano e soprattutto se abbiano o meno approfondito le vicende storiche nel cui contesto la normativa si inserisce. Come per fortuna qualcuno ha ricordato, se Brusca, che è e resta un feroce assassino, sia chiaro, è uscito dal carcere ciò è la conseguenza di una particolare legislazione che fu voluta dalla sua vittima più illustre, ovvero Giovanni Falcone, che, a sua volta, si era ispirato alla normativa prevista negli Stati Uniti e che aveva consentito negli anni 80, quando da noi essa ancora non esisteva, di ottenere la protezione di Buscetta e di conseguenza le sue dichiarazioni che, come noto, sono poi valse la prima storica condanna alla mafia nella sua interezza di struttura unitaria e verticistica.


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Iniziamo quindi con il fissare il concetto che l’uscita dal carcere di Brusca dopo 25 anni è avvenuta in conseguenza di una serie di sconti di pena che i vari giudici che lo hanno processato gli hanno riconosciuto, applicando la legge n. 82 del 1991, ispirata al Witness protection act, legge con la quale, in sostanza, si è istituita la possibilità, non il diritto, per chi collabora con la giustizia di ottenere sconti di pena e permessi premio (che, si badi, di volta in volta sono i singoli giudici a stabilire), introducendo altresì la garanzia di avere protezione per sé e per i propri cari. L’ammissione al programma di protezione, poi, che è la premessa per il riconoscimento dei riferiti benefici, è attribuita ad una speciale commissione ministeriale, sottoposta quindi al controllo del governo. Alla magistratura inquirente spetta il compito di proporre alla commissione l’ammissione al programma di protezione solo dopo l’aver verificato preliminarmente l’attendibilità del collaborante. Questi poi viene chiamato a sottoscrivere un vero e proprio contratto con lo Stato, con il quale assume una serie di impegni, a fronte, principalmente, dell’ottenimento della sua protezione personale e dei suoi familiari.


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Francamente bizzarro che di questo non lineare procedimento, prima amministrativo e poi giudiziario, non si sia affatto parlato. Tralasciando il profilo personale di Brusca, che tuttavia era uno dei principali bracci armati del capo della cupola e ricordando solo che di molte decine degli omicidi di cui si è attribuito la responsabilità non era neanche sospettato, il punto centrale resta la valenza strategica di questo strumento nella lotta alla mafia. Raggiunto nel 2000 il ragguardevole numero di 1.100 collaboratori di giustizia, per un totale di 5.174 persone protette, nel 2001 il governo di centrosinistra decise, fra non poche perplessità della magistratura, di modificare la legge sui collaboratori, introducendo una serie di sbarramenti per l’accesso al programma di protezione, ma soprattutto imponendo ai collaboratori di giustizia di raccontare ai magistrati tutto ciò che sono in grado di riferire nei primi 6 mesi di collaborazione; modifica ispirata dalle polemiche sorte per le dichiarazioni tardive resa da Buscetta su Andreotti, dichiarazioni infatti che non erano state mai accennate nelle pur migliaia di pagine di verbale sottoscritte alla presenza di Falcone.

Non pare discutibile che rispetto a fenomeni criminali caratterizzati da una forte omertà, l’uso dei collaboratori di giustizia sia, ancora di più delle intercettazioni, lo strumento decisivo per scardinarne la segretezza. Rinnegare questo assunto sarebbe come tornare indietro a prima del maxiprocesso.

Cosa diversa sarebbe ragionare sul grado di attenzione che deve essere attribuita nella fase del reclutamento dei collaboratori e soprattutto nella fase di valutazione dei riscontri, che sempre Falcone riteneva attività imprescindibile nel maneggiare uno strumento processuale di particolare delicatezza come appunto quello delle chiamate in correità. Il punto centrale di una discussione seria dovrebbe allora essere la regola di giudizio da applicare alle dichiarazioni di questi particolari testimoni, facendo salvo il principio che in caso di decisività delle dichiarazioni rese, il riconoscimento di uno sconto di pena non può che essere “il male necessario”. Se parliamo di mafia, il collaboratore di giustizia sarà inevitabilmente un soggetto che ha partecipato a eventi violenti e di sangue per cui il giudizio morale sulla sua persona non potrà che restare fuori dalle valutazioni processuali finalizzate all’acquisizione della prova a carico di altri mafiosi con la conseguente condanna.    

Al contrario, cavalcare la scarcerazione di Brusca per mettere di nuovo mano alla legge sui pentiti appare, per non voler essere malevoli, un’ennesima iniziativa di populismo finalizzata a cavalcare l’onda emotiva di un evento che sicuramente stride con le coscienze dei più ma che all’opinione pubblica andrebbe spiegato per quello che è e per quello che realmente rappresenta, ovvero l’inevitabile effetto di uno strumento processuale grazie al quale la magistratura italiana è riuscita a contrastare fenomeni criminali a cui prima faceva a stento il solletico. Francamente, il sistema giustizia italiano gode di ben altri problemi rispetto alla legge sui collaboratori di giustizia, che, sebbene migliorabile, andrebbe pur sempre studiata prima di essere fatta oggetto di qualunquistiche campagne mediatiche.

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