Il tema del caro affitti per gli studenti va affrontato a partire dal diritto allo studio. Serve un intervento strutturale sulle borse di studio
Attorno al tema del caro affitti sono state fatte considerazioni di diverso ordine e grado, già a partire dai mesi scorsi, ed ora la polemica sembra voler ripartire alzando ancor di più i toni. Ad inasprire questa polemica contribuisce il continuo rimbalzo tra comuni, regioni e ministero nell’assunzione delle responsabilità dei possibili interventi; responsabilità che, considerata la complessità della tematica, non può che essere comune.
Ma qual è realmente questa responsabilità? È l’affermazione del fatto che queste misure sono la condizione di crescita del nostro capitale umano, della fucina dalla quale sorgerà il nostro futuro. Dunque, finanziare le borse di studio e gli alloggi per studentesse e studenti non è solo un diritto – spesso erroneamente eretto a pretesa, causando però una mancata comprensione di quale sia il senso di queste misure –, è piuttosto l’attuazione di un modello culturale che mette al centro la formazione dei propri giovani perché ritiene che le condizioni attraverso le quali una studentessa o uno studente si formano siano il trampolino per donne e uomini formati, critici, e, di conseguenza, per una società più avanzata. Questo chiama in gioco tre temi.
1) Una riflessione sul nostro modello di università. Se parliamo di residenze parliamo di presenze. È sensato investire sulle residenze e sull’abitare solo se è sensato investire sulle presenze in università e in città. Ma ci si sta interrogando su questo? Se da un lato si fa la corsa alle residenze ma dall’altro non si fa nulla per offrire agli studenti un’università e una città abitabili, e allo stesso tempo si guarda inermi l’avanzata delle università telematiche, non si rischia di agire in modo irrazionale? Se si decide di investire sulle residenze, vi dev’essere una contestuale azione sul valore della presenza in università e in città, cioè sugli spazi negli atenei, sui trasporti e sulla sicurezza. E alla base di ciò, ci dev’essere il principio secondo il quale non è possibile che il sistema universitario cresca se non è garantito il diritto allo studio. È perciò imprescindibile un intervento strutturale sulle borse di studio. Quanto fatto, recepito nel Consiglio dei ministri del 25 settembre, è un ottimo punto di partenza, che ci dimostra due cose:
in primis, che se c’è una volontà politica, si riescono ad attuare i provvedimenti che gli studenti chiedono da tempo;
in secondo luogo, ci fornisce l’occasione per ribadire la necessità di un consolidamento della misura, perché i fondi a disposizione non saranno sufficienti già a partire da questo anno accademico. Si deve in ogni modo evitare che gli atenei siano costretti ad utilizzare i propri fondi per sopperire a questa inadempienza, perché questo costringerebbe a scegliere tra un’università di qualità e un’università per tutti, causando il venir meno della natura stessa di università: è impossibile scindere lo sviluppo del sapere dal suo carattere di universalità, è quindi impossibile che si possa dare reale conoscenza senza che essa sia di tutti.
2) Che tipo di studenti vogliamo? Tutte le misure che si stanno attuando rispondono principalmente ai cosiddetti “redditi alti”. Laddove si riesce, con convenzioni e accordi, a strappare al prezzo di mercato qualche posto-letto per il diritto allo studio, questo causa un’impennata dei costi degli altri posti-letto perché il costruttore deve fare profitto. Ciò non significa che non ci si debba affidare ai privati perché fanno profitto o addirittura – come alcuni credono – che essi vadano esclusi dalla creazione dei posti letto chiedendo alla commissione europea di dimezzare l’obiettivo Pnrr. Attualmente, solo i privati possono garantirci la velocità di costruzione che il Pnrr richiede. Si devono tuttavia valutare i bandi con i quali finanziare i privati, perché se la maggior parte del finanziamento di un certo intervento è ministeriale, è giusto che ci sia una corrispondenza tra tale percentuale e la percentuale di posti-letto che si assegna al diritto allo studio o a prezzi convenzionati. Questo vale anche per il comune: se il comune approfitta del privato per farsi “ricostruire” la città togliendo ad esso gli oneri di costruzione e di urbanizzazione, va bene, ma lo faccia con un contestuale accordo di calmerazione dei prezzi. Le modalità finora applicate escludono il ceto medio, ovvero alcuni tra i capaci e i meritevoli. Ma questa è una sconfitta a livello sociale e culturale. Che il destinatario delle attuali politiche di urbanizzazione e residenzialità sia solo lo studente che può permettersi una stanza a 800 euro al mese è una sconfitta per tutti, perché significa perdere parte di coloro che costruiranno il nostro futuro, e si sceglie di perderli per un modello che, francamente, non funziona nemmeno nel presente. Quanto voglio sottolineare è una paura non che la città di Milano si svuoti; la città di Milano non si svuoterà mai. È piuttosto la paura che la città di Milano si svuoti di studentesse e studenti, e, ancor più, la paura che una studentessa o uno studente meritevoli, desiderosi di formarsi negli atenei d’eccellenza, non possano farlo perché provenienti da una famiglia del ceto medio.
3) Che tipo di città vogliamo? È realmente un valore avere città popolate da studentesse e studenti universitari? Con Milano capofila abbiamo scelto il modello dello sviluppo di crescita per le nostre città. Ma se si trasforma la città in città solo turistica o ospite di eventi fieristici, si fa sì che per i giovani non ci sia più spazio. Questo accenno non vuole essere una demonizzazione di turismo ed eventi fieristici; è però necessario trovare un modello culturale che, senza rinunciare ad essi, non lasci indietro nessuno, tantomeno coloro la cui formazione è quanto di più prezioso una città possa ospitare. Ospitare la formazione di studentesse e studenti significa infatti per una città guadagnare in termini di dinamismo culturale e respiro internazionale, significa entrare nel dibattito scientifico europeo e mondiale.
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