Il Tar ha dato ragione alla famiglia di un ragazzo dotato di "plus dotazione cognitiva" bocciato perché durante le lezioni si annoiava
“Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola” è il noto aforisma di Leo Longanesi che ben si addice alla storia – altrettanto surreale – proveniente da una scuola media inferiore della provincia vicentina, dove un alunno dotato di “plus dotazione cognitiva” si è visto annullare la bocciatura di ammissione alla classe terza grazie a una sentenza del Tribunale amministrativo regionale.
Lungi da noi difendere in generale le famiglie che, in numero direttamente proporzionale al discredito sociale nel quale lavorano i docenti, ricorrono al Tar nella speranza (vana però nove volte su dieci) di vedere ribaltato lo scrutinio finale con cui viene decisa la ripetizione dell’anno per i loro figli; e nemmeno ci sentiamo di difendere i Tribunali quando, spulciando fra i cavilli escogitati della burocrazia, ribaltano i giudizi formulati dai consigli di classe. Il caso da cui partiamo spalanca le porte a tutt’altro tipo di giudizio.
La scuola italiana del terzo millennio è una mastodontica istituzione che, affogata dentro riforme della durata di un Governo, piani ministeriali spesso incomprensibili (e perciò inattuabili), valanghe di norme che partono dai diritti dimenticandosi dei doveri (di cui non parlano mai) ha smarrito sé stessa, ormai incapace di rispondere in larga misura a ciò per cui è nata: educare.
La vicenda che arriva da Vicenza fa il paio con quella che qualche anno fa arrivò da Aosta (e di cui scrivemmo su queste pagine): oggi il Tar ribalta una bocciatura, allora il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina obbligò la promozione di un allievo delle superiori che chiedeva (proprio così) di venire bocciato (eravamo in piena pandemia grazie alla quale il Governo vietò di bocciare e quindi vennero promossi anche gli analfabeti).
Tutto ciò dentro un sistema che, in nome del buonismo (come tutti gli -ismi, una sciagura), promuove a man bassa a ogni livello, tanto che, aboliti vent’anni fa gli esami di licenza elementare (2004, riforma Moratti), non si comprende più il senso per cui debbano esistere quelli di licenza media e di Maturità, ridotti come sono a un’ipocrita messa in scena che ha il solo scopo di salvare la faccia al sistema.
Un diplomificio come il nostro, che fa acqua da tutte le parti tanto da trovarsi in balìa di genitori iper-protettivi e di organi amministrativi iper-garantisti, può salvarsi solo se ricomincia dall’abc, vale a dire da un insegnante mosso dal desiderio di guardare in volto ogni studente partendo dal destino per cui è fatto, compito essenziale che richiede formazione professionale adeguata, capacità di tessere relazioni umane al di là delle richieste imposte dalla didattica, ma anche una condizione lavorativa libera dalla montagna burocratica che toglie spazio, tempo, energie a chi deve essere messo in grado anzitutto di insegnare, non di compilare moduli, statistiche, documenti.
Se ciò accadesse, il ragazzino di Vicenza che, a quanto si sa, venne fermato perché nelle lezioni che si svolgevano in classe si distraeva in quanto lo annoiavano (e, afferma il Tar, poco o nulla veniva fatto per offrirgli una proposta didattica all’altezza delle sue capacità molto superiori alla norma) sarebbe stato promosso a rigor di logica; e, di converso, verrebbero bocciati coloro che, dotati di normale intelligenza ma disinteressati a usufruirne, in nome del diritto allo studio vengono di norma promossi.
Troppo difficile? Per la scuola italiana di oggi, sì. E allora chi è causa del suo mal, pianga sé stesso.
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