Nel giorno della Festa della donna 2025, un vero programma di parità di genere non può tacere tutte le discriminazioni ancora in atto
Caro direttore,
abbiamo pensato che uno strategico slogan comunicativo, “pensati libera”, fosse l’implorazione del femminismo. In realtà cos’è il femminismo? Ma soprattutto, che fine hanno fatto le femministe?
Il femminicidio di Giulia Cecchettin aveva smosso molto gli animi; forse il doloroso coraggio della sorella, giovanissima di appena vent’anni, ha trovato la forza di ribellarsi al silenzio omertoso di un sistema patriarcale insediato nel modus pensandi collettivo; la morte di Michela Murgia, intellettuale ed acuta opinionista, ha scosso con sibillina intelligenza gli animi dei più silenti. Da questi dolorosi eventi in poi, si è assistito ad una velata tabula rasa.
L’8 marzo si celebra la Festa delle donne, più propriamente, la rivendicazione dell’uguaglianza del genere. La Costituzione italiana sancisce “Tutti i cittadini hanno pari dignità senza distinzione di sesso”, pertanto l’uguaglianza è un diritto; ma nella vita pratica, se una donna acquisisce una facoltà, vive, nonostante tutto, il rimorso di aver sottratto qualcosa a qualcuno.
Casi di cronaca odierna segnalano che il solco verso la parità di genere non è ancora all’orizzonte.
Il 15 novembre 2024 una giovane dipendente di una ditta del nuorese, viene costretta dalla sua datrice di lavoro, anch’essa donna, a fare un test di gravidanza dinanzi ai colleghi maschi, per poi essere destinata al licenziamento.
Altra testimonianza di discriminazione di genere, è la sentenza del Tribunale di Milano n. 3153/23 pubblicata il 3/10/23, la quale ha riconosciuto doppiamente discriminatorio il licenziamento collettivo del personale femminile di un’azienda. È il caso di sei lavoratrici donne di una società lombarda occupata in attività di movimentazione merci e magazzino che, a seguito dell’affermata contrazione negli ordini e nel fatturato per il fallimento di un cliente, aveva avviato la procedura di licenziamento collettivo per 9 risorse in esubero fra gli addetti al magazzino (in totale 22 persone di cui 12 donne, pari al 54,55%), tutte con inquadramento al 4° livello e mansioni di operaio/a per mansioni multiple di magazzino. La società sostenendo di non aver più necessità di addetti al picking (movimentazione manuale) ma solo di carrellisti, aveva attribuito un valore molto elevato, fra i criteri di scelta, a chi svolgeva mansioni di addetto ai carrelli elevatori e un valore pari a zero a chi svolgeva la movimentazione manuale delle merci.
La difesa delle ricorrenti ha evidenziato di quanto la condotta del datore di lavoro fosse in contrasto con l’articolo 5 comma 2 l. 223/91 che impone all’impresa il divieto di non licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione; nel caso menzionato, prima del licenziamento, le donne addette al magazzino erano il 54,55% del totale, all’esito della procedura di licenziamento, le donne hanno costituito il 100% del personale licenziato. Non solo. La loro espulsione costituiva l’approdo finale di una condotta discriminatoria messa in atto prima dell’avvio della procedura, e più precisamente nel momento della formazione e dell’aggiornamento professionale. Le lavoratrici avevano infatti allegato di non essere mai state formate all’uso dei carrelli elevatori, a differenza dei colleghi maschi, con la conseguenza che le mansioni cui erano state adibite (quelle di addette al picking) erano diventate obsolete, aprendo la strada al loro licenziamento.
Ulteriori forme di discriminazioni si insediano anche nella governance sportiva; in Italia, sono le federazioni nazionali a stabilire quali categorie sportive sono considerate dilettantistiche oppure professionali e dunque ad usufruire delle tutele giuridiche previste dalla legge 8 agosto 2019, n. 86 in materia di “ordinamento sportivo, di professioni sportive nonché di semplificazione”.
Ad oggi, nessuna federazione consente alle donne di accedere all’attività professionistica. Oggi le donne atlete italiane che praticano sport e che dello sport fanno un lavoro sono costrette a esercitarlo da dilettanti, nonostante lo stesso sport praticato dagli uomini sia considerato professionistico. Tale differenza rappresenta pertanto una palese discriminazione delle atlete.
La legge sul professionismo sportivo, infatti, divide la pratica sportiva in due categorie: attività sportiva professionistica svolta nell’ambito di società di capitali e attività sportiva dilettantistica praticata da atleti e da associazioni sportive dilettantistiche, cooperative e di capitali senza finalità di lucro.
Da ciò consegue che le atlete donne ricavano compensi molto inferiori rispetto ai colleghi atleti uomini. Inoltre, cosa non marginale, non hanno diritto a godere delle garanzie previdenziali, contributive e sanitarie previste dagli inquadramenti contrattuali.
La rivendicazione dei diritti delle donne ha origini remote, prende forma nel secolo del gentil sesso, il Settecento; periodo in cui la quota femminile della società inizia ad acquisire maggior consapevolezza di sé, a sentire sempre più seria e profonda la necessità di affermare la propria indipendenza, capovolgendo l’atavico cliché della passività mentale e annientando il tabù di una cultura esclusivamente maschile. Il processo di realizzazione del programma di pari opportunità, nel nostro sistema costituzionale approda a seguito delle mobilitazioni delle donne, le quali rivendicavano una necessaria riformulazione del rapporto tra uguaglianza e differenza, muovendo soprattutto dall’irrinunciabilità alla dimensione costituzionale sessuata del soggetto.
Le origini delle istanze femminili sono assai remote: nelle opere degli illuministi del tardo Settecento emergono ideali di proclamazione del principio di parità uomo-donna, rimasti inerti a seguito dei numerosi tentativi di deterrenza al rinnovamento. La lotta per il suffragio femminile ha incontrato ostacoli di doppia matrice: una maschile, il cui intento era quello di impedire la perdita della femminilità, e l’altra femminile, in nome di una mentalità patriarcale e dell’ideologia cattolica che professava la rinuncia mondana ai fini dell’eguaglianza spirituale.
Ad oggi il fenomeno del labour slack è fortemente aumentato rispetto agli anni precedenti, le donne seppur vogliose di intraprendere un’iniziativa lavorativa sono sfiduciate da condizioni contrattuali precarie imposte; i dati Eurostat registrano che, la quota di donne “non lavoratrici” è raddoppiata al 48%, in particolare nel Mezzogiorno.
La legge di Bilancio 2025 prevede un parziale esonero contributivo della quota dei contributi previdenziali a carico di lavoratrici, madri di due o più figli, escludendo il lavoro domestico. Una misura che rappresenta l’ennesima mortificazione in tema di mainstreaming femminile, cementificando la convinzione che una donna si autodetermina in quanto donna-madre talvolta riportandoci indietro di decenni, dove la funzione sociale della donna era quella di garantire una famiglia al regime.
Viviamo in un mondo non a portata di donna, dove gap legislativi, socio-culturali in materia di autodeterminazione femminile sono la concausa di una crisi sociale nonché la rappresentanza di una nevralgia politica che sta generando crisi sociali sempre più divisive.
Una società che si proietta al futuro, al progresso, si deve necessariamente erigere su un’equa suddivisione delle ricchezze ed educazione paritaria; solo qualora i sistemi governativi e sociali saranno in grado di garantire gli stessi diritti e benessere a tutti gli individui, indipendentemente dall’essere di genere maschile o femminile, che si potrà costruire una società giusta ed equilibrata.
Negli ultimi decenni di femminismo se ne è parlato tanto, in termini quantitativi, per nulla in maniera qualitativa. E forse, è proprio questo, il motivo per cui in poche ne conoscono il reale significato.
Essere femministe, ai tempi odierni assume una valenza prettamente negazionista dell’essere coppia, donna, compagna, amica.
In realtà, essere una femminista ed essere delle femministe equivale ad esprimere un’esigenza (sincera e concreta) di solidarietà femminile universale.
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