Il World Happiness Report, o Report Gallup, parla chiaro. La felicità si misura, ma il suo ingrediente principale non è il Pil, sono le relazioni
Dal 2012 un gruppo internazionale di prestigiosi ricercatori pubblica un ambizioso e prezioso Rapporto mondiale sulla felicità (World Happiness Report, detto anche Report Gallup). Si tratta di un progetto promosso dal Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford, con l’obiettivo di integrare e correggere le misurazioni e le graduatorie nazionali puramente economicistiche, legate al prodotto interno lordo, al reddito pro-capite, alla produzione industriale.
Ambizioso perché misurare la felicità è certamente uno dei problemi più complessi per le scienze sociali, e ogni indagine, rilevazione o questionario deve inevitabilmente semplificare e selezionare solo alcuni dei dati e degli elementi che costruiscono la felicità di una persona.
Ci vogliono risorse economiche, buone relazioni, buoni motivi per svegliarsi la mattina (valori e scopi), un ambiente salubre, un sistema politico che lasci liberi, un’istruzione (e un sistema informativo) che consenta di capire la realtà e di essere liberi… la lista potrebbe continuare (che dire del “basta la salute”?), ma è importante ricordare che, in ogni caso, i dati proposti dall’indagine, anche se si presentano nella forma di numeri (posizione in graduatoria, valore di un indice, ecc.) sono comunque solo un’approssimazione (una proxy), più che una precisa misurazione numerica (per i più curiosi, l’Italia è al 40esimo posto in graduatoria su 147 nazioni). Da considerare quindi con un certo discernimento.
Pur con questi limiti (non marginali, peraltro), il World Happiness Report si è da subito rivelato molto prezioso, perché supera quella riduzione economicista che troppi indicatori sviluppano quando si effettuano confronti internazionali, basandosi essenzialmente su reddito, produzione di beni, mercato del lavoro, ecc.
Insomma: le graduatorie dei Paesi sulla base del Prodotto interno lordo (il Pil) sono evidentemente insufficienti non solo per definire la qualità di vita di una nazione, ma anche per misurare il suo effettivo livello di benessere e di ricchezza: perché – ad esempio – un Paese dove esiste una fitta rete di associazioni di volontariato e di solidarietà familiare e di vicinato è certamente più ricco di uno che non ne dispone.
E anche l’Istat, in Italia, ha sviluppato da diversi anni un sistema di indicatori che possano raccontare questa “eccedenza di valore” che sfugge agli indicatori più squisitamente economici (si tratta degli indicatori del BES, Bilancio Equo e Sostenibile – qui qualche info dal sito Istat).
In particolare il Report 2025 (con dati Gallup) si è concentrato proprio sul modo in cui l’indice di felicità viene alimentato da comportamenti prosociali; i dati hanno misurato il modo in cui le persone sono più o meno felici se e in quanto agiscono a favore degli altri senza aspettarsi un corrispettivo economico.
Varrebbe davvero la pena di leggere con attenzione le oltre 140 pagine del Report (in inglese), dove i dati statistici documentano con precisione e rigore una stretta correlazione tra la forza e la stabilità dei legami interpersonali e la crescita della felicità personale. In estrema sintesi: nella stragrande maggioranza dei casi le persone che svolgono funzioni di cura e che condividono pezzi della propria vita con altre persone sono più felici, a prescindere da reddito, classe sociale, area geografica, nazione, contesto di vita… di converso, le persone sole evidenziano quasi sempre valori inferiori di benessere e di felicità.
Ad esempio, la semplice informazione sul consumo dei pasti insieme mostra che la relazione con gli altri fa la differenza: più spesso si mangia con altri, più cresce l’indice di felicità (un intero capitolo è dedicato a questo argomento). In parole povere, le relazioni sono la risorsa più preziosa per stare bene nella vita.
Non sorprende quindi che anche la dimensione familiare faccia la differenza (anche al tema delle relazioni familiari è dedicato un capitolo). In particolare emerge che l’indice di felicità cresce al crescere del numero dei componenti del nucleo, da un valore minimo per le persone che vivono da sole, crescendo fino a trovare il suo valore massimo per le famiglie con quattro o cinque componenti.
Le persone in queste famiglie godono di relazioni abbondanti e molto soddisfacenti, mentre le persone che vivono da sole spesso sperimentano livelli più bassi di felicità, principalmente a causa di livelli più bassi di soddisfazione relazionale. D’altra parte, chi vive in famiglie molto grandi può anche sperimentare meno felicità, probabilmente per fattori legati a una diminuzione della soddisfazione economica. Anche qui, in estrema sintesi: le relazioni familiari generalmente svolgono una funzione protettiva insostituibile per il benessere (la felicità) della persona.
Solo due brevi commenti, per concludere. In primo luogo, alcune delle riflessioni del Report Gallup 2025 relative alla famiglia andrebbero probabilmente incrociate con l’età dei soggetti considerati, perché è ben diversa la situazione di una persona che vive sola dopo i 75 anni, magari con salute incerta, rispetto a quella di un 35enne laureato all’estero con un progetto lavorativo in piena espansione, o di una coppia di anziani, con figli ormai usciti di casa, rispetto ad una giovane coppia, ancora all’inizio del proprio progetto di vita personale e familiare.
Forse qualche indice, incrociato con le età e le forme familiari, darebbe esiti differenti. A onor del vero l’età è stata la linea interpretativa del Report Gallup 2024; ma, appunto, occorre considerare congiuntamente età a struttura familiare, per capire meglio le fasi del ciclo di vita della persona e soprattutto della famiglia.
Da ultimo, è davvero confortante che il World Happiness Report 2025 includa la famiglia tra i fattori generatori di benessere individuale e collettivo, a partire da dati rigorosi e soprattutto “neutrali” rispetto ad orientamenti valoriali specifici. Troppo spesso chi sosteneva il valore sociale ed economico della famiglia veniva accusato di pregiudizi familisti, spesso legati a valori religiosi.
Questo Report conferma quindi empiricamente che la famiglia è una “risorsa per la società”: ma non posso non ricordare che questo era il titolo di una importante ricerca curata dal Cisf (anch’essa ricca di dati empirici), coordinata da Pierpaolo Donati e presentata all’Incontro Mondiale delle Famiglie del 2012 a Milano per conto dell’allora Pontificio Istituto della Famiglia.
A voler sottolineare – un po’ polemicamente, mi si permetta – che il World Happiness Report, nato esattamente nello stesso anno, 2012, ci ha messo un po’ di anni per arrivare ad evidenziare quanto era già evidente per molti gruppi di ricerca, non solo in ambito cattolico: la famiglia è un generatore potente di benessere e di felicità, sia per le persone che per la collettività.
E proprio per questo sono ancora più necessarie azioni politiche che sappiano vedere e sostenere non solo il Pil, ma anche le relazioni familiari: non per assistenza, ma per lo sviluppo, il benessere e la felicità dell’intera società.
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