Sono stati annunciati da Trump ieri i nuovi dazi scattati per le importazioni negli Usa, che penalizzano in particolare la Cina
Ieri Trump ha annunciato i dazi imposti a partire dalla mezzanotte di ieri. Il livello minimo, il 10%, è riservato a meno della metà dei Paesi, ma per i maggiori partner commerciali degli Stati Uniti i dazi saranno più alti: 34% alla Cina, 20% all’Unione europea, 24% al Giappone, 32% a Taiwan, 26% all’India. Brasile, Regno Unito, Turchia sono invece tra i Paesi che se la cavano con il 10%.
I principali indici azionari globali dopo l’annuncio hanno virato in negativo perché il livello imposto alle maggiori economie è più alto di quanto si attendessero gli investitori che si posizionavano su un livello compreso tra il 10% e il 20% mentre le aspettative di inflazione salivano. La tariffa complessiva sulla Cina, in aggiunta a quella del 20% per il “Fentanyl”, sarà del 54%. Se l’America dovesse imporre una tariffa aggiuntiva del 25%, a causa gli acquisti cinesi di petrolio venezuelano, per Pechino i dazi passerebbero al 79%.
A valle dell’annuncio si speculava sulle prossime mosse partendo dal presupposto che quanto annunciato ieri potesse essere il punto di partenza negoziale; ogni partner, inclusa l’Unione europea, potrebbe ottenere riduzioni in cambio di concessioni che non necessariamente si limitano all’aspetto economico. Nessuno invece ipotizzava, almeno per gli alleati, un processo di dazi e controdazi che potrebbe spingere le tariffe a livelli punitivi e decretare la fine o la crisi di pezzi importanti dell’economia. Non si possono ovviamente escludere comportamenti irrazionali. Sono tutte ipotesi che verranno vagliate nei prossimi giorni quando si scopriranno le carte al di là degli annunci degli ultimi giorni.
Ci sono però alcune certezze. Nella descrizione con cui Trump ha tratteggiato il partner commerciale “tipo” che negli ultimi decenni si è approfittato degli Stati Uniti desertificando il suo sistema industriale sono state citate tre caratteristiche. È un partner che manipola il cambio, sussidia l’export e ruba la priorità intellettuale. Se tre indizi fanno una prova l’indiziato è la Cina che infatti viene colpita con un dazio del 34%. I tre indizi sono le accuse più frequenti che vengono rivolte al gigante asiatico nelle discussioni degli economisti americani.
Se l’America può avere flessibilità con gli europei o i giapponesi facendo entrare nella partita, per esempio, aspetti geopolitici questo non vale per Pechino. Il trattamento riservato alla Cina è un monito per tutti gli altri e dovrebbe sconsigliare, sempre assumendo un comportamento razionale, qualsiasi velleità di escalation.
Se l’obiettivo dell’America è la Cina è inevitabile chiedersi quanto spazio verrà concesso agli alleati o ai partner commerciali per continuare a commerciare con Pechino. Se tutto il mondo continua a commerciare come prima l’obiettivo non è raggiunto per quanto grande possa essere l’economia americana. La Cina continuerà a essere la fabbrica del mondo e le relazioni che intercorrono tra dollaro e le altre valute, euro incluso, impediranno agli Stati Uniti di raggiungere lo scopo e di riequilibrare il deficit commerciale e finanziario.
Si apre quindi una fase di cambiamenti radicali in cui l’Occidente deve ricostruire la base industriale persa negli ultimi tre decenni e delocalizzata in Cina. Gli Stati Uniti non possono fare tutto altrimenti l’inflazione non sarebbe controllabile e partner amici, India in primis, si candidano a sostituire Pechino.
Anche per l’Europa questa potrebbe essere un’opportunità a patto di garantire alle imprese condizioni competitive: deregolamentazione, ambiente pro-impresa e “realismo energetico” in opposizione al dogmatismo degli ultimi anni. In Italia i salari sono ormai molto meno della metà di quelli americani. L’Italia avrebbe un’altra leva da giocare in questo scenario perché rimpatriare imprese richiede investimenti colossali e nel nostro Paese, a differenza della Francia per esempio, i debiti privati sono bassi e i risparmi alti. Questa è una leva a patto di investire nelle cose giuste e di cambiare approccio sulla transizione.
Se la Cina non è più la fabbrica del mondo salgono i prezzi, recessioni escluse, e i tassi di interesse e il risparmio diventa la riserva da cui attingere. Rimane da capire come i Governi concilieranno l’esigenza di investire con quella di tenere a bada i prezzi senza far salire troppo i tassi.
Un ultimo appunto. Nella narrazione con cui Trump ha aperto il discorso di ieri l’America è la vittima di un sistema che l’ha derubata di fabbriche e di posti di lavoro a tutto vantaggio dei partner commerciali. Ci si dimentica un punto. Il contraltare del deficit commerciale americano è l’andamento del suo principale indice azionario. Più i partner commerciali accumulavano surplus, e l’America deficit, più lo reinvestivano sulle borse di New York arrivate a valutazioni impensabili. Se l’America fa sul serio, lo scopriremo in questi mesi, forse dovrà sacrificare la “borsa”.
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