È in corso una "sotterranea" e progressiva trasformazione delle relazioni di lavoro anche con riguardo al trattamento retributivo corrisposto
In tempi recenti sta avvenendo una “sotterranea” e progressiva trasformazione delle relazioni di lavoro non solo con riguardo alle modalità di svolgimento della prestazione – basti pensare al diffondersi dello smart working o degli strumenti di intelligenza artificiale -, ma anche con riguardo al trattamento retributivo corrisposto ai dipendenti.
Da una parte, infatti, la c.d. “parte variabile” della retribuzione sta estendendosi sia qualitativamente che quantitativamente, interessando ormai ampie fasce di lavoratori – e non solo i collaboratori apicali – e con percentuali rispetto alla retribuzione fissa sempre più significative.
D’altra parte si assiste a una recondita modifica anche nel modo di concepire e determinare la “retribuzione fissa” dei lavoratori con implicazioni non solo economiche ma ancor prima di carattere culturale: si sta infatti passando – sottotraccia, per lo più per via giudiziaria mutuando dai principi comunitari – da un ordinamento giuridico che per un secolo ha decisamente escluso l’esistenza, nel rapporto di lavoro privato, di un principio di parità di trattamento retributivo per i lavoratori con la stessa qualifica e mansione una volta assicurata la “parità nei minimi” previsti dal contratto collettivo (Cass. Sez. Un. 29.5.1993 n. 6030) e fatti sempre salvi i casi di discriminazione, a un sistema che, di fatto, tende verso un inedito principio di parità di trattamento.
La parità di trattamento retributivo “di genere” è stata infatti introdotta nel sistema dell’Unione europea dall’art. 157 TFUE e dalla Direttiva 2006/54/CE e rappresenta la base da cui si è mosso l’ordinamento comunitario per arrivare a plasmare un principio generale di uguaglianza – in primis di genere – sovraordinato e, per molti aspetti, immediatamente applicabile anche all’ordinamento giuridico nazionale.
Secondo l’art. 157 TFUE, infatti, “ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”.
Tale generale principio è stato ulteriormente declinato dalla recente Direttiva (UE) 2023/970 del 10.5.2023, nota anche come “Pay Transparency Directive”, con cui il Parlamento e il Consiglio europeo sono intervenuti con l’obiettivo di dare effettiva attuazione al principio della parità retributiva tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un “lavoro di pari valore” (art. 157 TFUE) e al divieto di discriminazione (art. 4, direttiva 2006/54/CE).
Infatti, ancora nel 2020 risultava elevato (13%) il divario retributivo di genere nell’Unione europea laddove in Italia il divario lo scorso anno era addirittura del 34,54% secondo i dati dell’Inps relativi alla retribuzione media giornaliera.
Con la nuova Direttiva il limite di tolleranza del gap retributivo di genere per singole categorie viene fissato nella misura del 5% non già ancora come obbligo, ma come soglia al di sopra del quale il datore di lavoro deve motivare adeguatamente le differenze retributive sulla base di criteri oggettivi e neutri, pena il risarcimento integrale del danno, comprensivo di differenze retributive, danni immateriali e interessi di mora.
Tale Direttiva non è direttamente applicabile e necessita di specifiche «disposizioni legislative, regolamentari e amministrative» per diventare efficace negli Stati membri che avranno ancora un anno di tempo (fino al 7 giugno 2026) per recepire e convertire in legge i principi della Direttiva.
Questa tendenza alla “parità” sta progressivamente contaminando la giurisprudenza nazionale affacciandosi, anche al di là del “genere”, sino alla soglia di insinuare un principio di eguaglianza e parità anche retributiva tra tutti i lavoratori occupati in mansioni analoghe, intaccando un principio granitico fino ad alcuni anni addietro.
Anzitutto nel comparto del pubblico impiego “privatizzato”, vige un principio di parità di trattamento ex art. 45 del D. Lgs. 30.3.2001 n. 165.
Inoltre anche nel comparto privato, ancorché la giurisprudenza nazionale maggioritaria resti ancora nel senso di negare in astratto l’obbligo di eguaglianza retributiva in capo alla parte datoriale riconoscendo all’autonomia aziendale il diritto di istituire miglioramenti ad personam rispetto agli standard minimi stabiliti dal contratto collettivo applicabile per ciascuna categoria professionale, si possono rilevare alcune crepe nella impostazione tradizionale.
E invero, con riguardo alla parità di trattamento retributivo di lavoratori che svolgono le stesse mansioni, si segnala una pronuncia del Tribunale di Aosta del 5.1.2016 che ha accertato la disparità e dunque l’illegittimità del trattamento salariale riconosciuto dal datore di lavoro a un dirigente rispetto alle retribuzioni degli altri quattro dirigenti suoi colleghi e alle retribuzioni percepite da alcuni impiegati e, per l’effetto, ha riconosciuto al lavoratore il diritto “al risarcimento del danno patito a causa dell’illegittima discriminazione retributiva subita” (si vedano anche Cass. 7.5.2013 n. 10550 e Trib. Roma 6.3.2018 n. 1657 che hanno attribuito rilievo al principio della parità di trattamento dinnanzi ad analoghe condotte disciplinarmente rilevanti).
Un altro più frequente escamotage giudiziario mediante il quale si sta introducendo surrettiziamente un principio di uguaglianza retributiva tra i lavoratori muove da una concezione sempre più ampia ed elastica della nozione di “discriminazione” e della relativa prova.
Mentre fino a pochi anni fa la “discriminazione” sul piano retributivo doveva essere per la giurisprudenza unanime rigorosamente provata e costituire il motivo “unico e determinante” della disparità di trattamento, in tempi recenti essa può essere provata nelle aule di giustizia “con mere presunzioni” e ancorché non sia il motivo “unico e determinante”.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, è sufficiente che il lavoratore alleghi “elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, rendano plausibile l’esistenza della discriminazione” (si veda da ultimo Cass. 24.6.2024 n. 17267).
Si tratta di una via indiretta per pervenire al risultato della parità di trattamento attraverso una estensione della portata e della possibilità probatoria della discriminazione.
Stante quanto precede, si rivela sempre più urgente e auspicabile una seria e aperta riflessione sulla questione al fine di contemperare i principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione (art. 36 Cost.) con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e con le più recenti norme e sentenze comunitarie ricercando un ragionevole contemperamento che tenga conto di un contesto lavorativo e occupazionale fortemente mutato; e che consideri altresì il notevole indebolimento del potere di acquisto registrato dai lavoratori negli ultimi anni anche per effetto delle note dinamiche inflattive.
Al riguardo, una volta assicurato che effettivamente “la retribuzione [sia] proporzionata alla quantità e qualità del lavoro”, che sia “sufficiente ad assicurare” al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” ex art. 36 Cost., e che vengano represse le reali ed effettive discriminazioni, pare eccessivo e inadeguato postulare un generale principio di “parità di trattamento” tra tutti i lavoratori introducendo di fatto un sistema nel quale non avrebbe legittimità neppure l’evangelica parabola degli operai della vigna dell’ultima ora.
Un opportuno confronto sulla tematica e su tutte le sue implicazioni dovrebbe anzitutto avvenire in sede collettiva mediante un serio e approfondito esame con le rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle aziende, o al limite nelle aule parlamentari nel rispetto del principio di trasparenza e tenendo realmente conto di tutti i fattori in gioco.
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