Una mostra di Dorothea Lange ricorda i giapponesi internati dopo Pearl Harbor. Una rivalsa ingiustificata. L'odio non porta da nessuna parte
L’altro giorno ho trovato il tempo di andare al Museo Diocesano di Milano per ammirare la Deposizione del Tintoretto, esposta nel periodo pasquale. Contemplarla, non solo guardarla, è stata un’esperienza emozionante. In particolare mi ha colpito l’immagine di Maria, affranta nel dolore, fino al punto da sembrare ella stessa vittima della sorte del Figlio.
Questa impressione mi ha poi accompagnato quando al pian terreno, prima di uscire, ho visitato la mostra fotografica dedicata a Dorothea Lange. Tra le sue bellissime fotografie mi hanno colpito quelle dedicate ai giapponesi, per la maggior parte cittadini americani, internati dopo il vile attacco di Pearl Harbor, in regime di segregazione soprattutto in California. Immagini di negozi chiusi con la scritta “io sono americano”, di colonne di famiglie deportate coi loro bagagli, di bambini giapponesi obbligati a cantare l’inno americano con la mano sul cuore.
Certo si può comprendere il risentimento del popolo americano contro quell’azione tremenda condotta senza rispetto delle regole internazionali, giocando sulla differenza dei fusi orari. È anche molto probabile che tra i giapponesi-americani ce ne fossero in sintonia con il regime militarista nipponico. Non credo però che tutti, o almeno la maggior parte di quei giapponesi d’America, fossero responsabili dell’attacco di Pearl Harbor o potenziali spie e sabotatori al servizio del nemico.
In quel momento mi è venuto in mente il triste destino delle varie popolazioni residenti in Unione Sovietica deportate da Stalin perché appartenenti a nazionalità dei nemici. Basti pensare ai tedeschi del Volga o agli italiani di Kerch. O anche, fatto da noi poco conosciuto, agli oltre 300mila coreani deportati in Siberia e in Asia Centrale, quando in occasione della guerra in Manciuria i giapponesi rilanciarono lo slogan “l’Asia agli asiatici”.
Tutto ciò non ha potuto non riportarmi alla realtà di oggi, ai russi e agli ucraini che entrano nel mio Santuario di San Giuseppe e a volte si rifiutano di pregare insieme. Per questo mi è accaduto di averli gentilmente invitati ad uscire, dicendo che si trovavano in una chiesa cattolica, cioè universale, dove non si accettano discriminazioni etniche. Tra i frequentatori ci sono anche studenti russi, che studiano regolarmente in Italia con tanto di permesso di soggiorno. A loro, pare, non è concesso aprire un conto in una nostra banca. Sembra che ciò faccia parte delle famose sanzioni.
Queste, da quanto ho capito, avrebbero dovuto colpire gli oligarchi sostenitori di Putin, non gli studenti presenti legalmente nel nostro Paese. Del resto i numerosi e ricchi turisti russi che frequentano i negozi del centro credo proprio che sappiano come pagare i loro costosi acquisti.
La cosa che più mi spiace è che mentre questi sono ovviamente ben riveriti (pecunia non olet), qualche volta questi ragazzi ricevono un trattamento non proprio cordiale non solo dai loro coetanei ucraini sfollati da noi, il che potrebbe essere anche comprensibile, ma anche da qualche italiano “politicamente corretto” che dimostra il suo patriottismo trattando male questi “ragazzotti russi”. E il paradosso è che tra loro che ce ne sono alcuni che sono qui proprio perché non sono d’accordo con Putin.
È quello che succede, a volte, anche ad ebrei affrontati da alcuni esponenti pro-Palestina che forse farebbero meglio a fare altro per il bene di quelli di Gaza.
Ma, come vedete, la storia fa fatica ad insegnarci qualcosa, anche perché una parte di essa è ancora poco insegnata nelle nostre scuole. Povera Madonna, non è finito il tuo dolore per la sorte di tanti figli del tuo Figlio.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
