Dalle parole del Premier spagnolo Sanchez e dell'ad di Rheinmetall Italia Ercolani si possono capire molte cose sulle spese nella difesa
Il Primo ministro spagnolo Sanchez ha scritto una lettera per esprimere tutta la propria preoccupazione per la richiesta di incremento della spesa per la difesa fino al 5% del Pil; per l’esattezza fino al 3,5% del Pil entro il 2030 più un altro 1,5% per attività complementari come strade, ponti e cybersecurity. La lettera arriva alla vigilia del summit della Nato di settimana prossima.
Secondo Sanchez, questi obiettivi rischiano di rallentare la crescita economica spagnola via “incremento del debito, pressioni inflattive e dirottamento degli investimenti da settori cruciali con un fattore moltiplicativo più alto”. Sanchez aggiunge che per la Spagna e altri Paesi Nato raggiungere il 5% di Pil in spesa per la difesa sarà impossibile “senza aumentare le tasse sulla classe media, senza tagliare i servizi pubblici e la spesa sociale”. Il Premier spagnolo evidenzia altre criticità perché un incremento così repentino rischia di costringere l’Europa a spendere per materiale bellico già disponibile dirottando i fondi a beni prodotti fuori dall’Europa invece di sviluppare programmi domestici.
La lettera del Premier spagnolo ha il merito di calare nella realtà obiettivi che prendono la forma di numeri asettici. Per l’Italia arrivare al 3,5% del Pil in spesa per la difesa significa trovare circa 45 miliardi di euro all’anno oltre quelli che si spendono già (l’Italia è al 2% del Pil); altrettanti ne servono per arrivare al 5% del Pil: 45 miliardi di euro significano 750 euro a italiano, pensionati e neonati inclusi, e tremila euro per una famiglia di quattro persone. Per arrivare al 5% queste cifre raddoppiano. Tutti gli anni.
È anche per questa ragione che si fa strada nel dibattito una soluzione all’apparenza indolore. La soluzione passerebbe dal rilassamento dei vincoli europei su deficit e debito da cui scorporare i fondi destinati alla difesa. Si propone, sempre su queste stesse linee, la creazione del “debito europeo”.
La storia finanziaria degli ultimi mesi dimostra però che oggi, a differenza del 2011, il mercato non ha il problema di non avere abbastanza strumenti di debito pubblico, ma esattamente l’opposto. Gli investitori sono diventati estremamente attenti a deficit e inflazione e i Governi dovrebbero tenerne conto perché in un mondo di risparmi scarsi rispetto alla domanda, per nuovi “investimenti”, qualsiasi accenno di inflazione diventa un grande problema.
Torniamo per un attimo alle cifre. Esse non esauriscono la dimensione della sfida. Per comprendere questo punto basta rileggere l’intervista concessa dall’ad di Rheinmetall Italia, Alessandro Ercolani, ieri al Corriere della Sera. Il manager cita come esempi positivi l’acquisto da parte della società che guida di uno stabilimento tedesco che oggi produce la Volkswagen T-Roc oppure la richiesta fatta dal Governo francese a Renault per produrre droni militari in “grandissime quantità”.
All’Italia il manager suggerisce la riconversione della filiera che oggi produce la componentistica elettromeccanica per l’automotive. La conclusione di questo processo è inevitabile perché ridurre l’offerta di macchine ha solo una conseguenza possibile nel medio periodo e cioè prezzi più alti e un numero crescente di famiglie che semplicemente non se la possono più permettere. Si può ottenere lo stesso risultato rendendo la vita impossibile ai possessori di auto e quindi riducendo la sua utilità; il risultato però non cambia.
Tutte queste considerazioni, quelle contenute nella lettera di Sanchez e le implicazioni di quanto suggerito dall’ad di Rheinmetall Italia, dovrebbero sembrare ovvie, ma invece non lo sono affatto. C’è uno scollamento completo tra l’enunciazione degli obiettivi e la politica dell’Unione europea che continua immutata come se non avessero impatti.
In questi stessi giorni si discute dell’applicazione delle regole dell’Unione europea sulle emissioni auto che impedirebbero l’utilizzo di vetture diesel euro 5 nei comuni superiori a 30 mila abitanti. Si tratta di circa 3,7 milioni di veicoli. In un mondo in cui ai cittadini vengono tolti, o direttamente tramite tasse o indirettamente in termini di tagli alla spesa sociale e maggiore inflazione, 750 euro a testa tutti gli anni e in cui i prezzi delle vetture auto salgono perché si riconvertono gli stabilimenti per produrre armi non è chiaro dove le famiglie debbano trovare i soldi per un’automobile nuova dopo averne rottamato una perfettamente funzionante perché “euro 5”.
Gli obiettivi di incremento della spesa in difesa iniettano nella società diminuzione del potere d’acquisto dei salari e meno benessere e insieme una volatilità difficile da gestire nella società o sui mercati dei debiti sovrani. Ce ne sarebbe abbastanza per essere preoccupati anche se il sistema fosse consapevole della sfida e abbandonasse qualsiasi approccio ideologico. Questo però non è il caso dell’Europa che invece procede sui suoi obiettivi come se fossimo ancora nel 2019 e come se le famiglie potessero permettersi ancora tutto.
Il minimo che si possa dire, con queste premesse, è che si rischia di compromettere la pace sociale e creare così i presupposti per una seconda guerra interna oltre a quella esterna.
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