L’esame di maturità è il punto culminante di molte contraddizioni che segnano il sistema-scuola. L'autore risponde all'articolo di A. Artini
Nel calendario scolastico italiano la letteratura del Novecento, quando non viene del tutto elusa, scivola in fondo al quinto anno, compressa tra verifiche di recupero e la frenesia di “chiudere il programma”.
Questa marginalità non è frutto del caso, ma dell’impianto ottocentesco di manuali e curricoli: opere ridotte a reliquie museali, autori presentati come busti di marmo e studenti concepiti come vasi da riempire di nozioni.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: quasi la metà dei diplomati non raggiunge la soglia minima di competenza in italiano e matematica, mentre la categoria della “dispersione implicita” fotografa un esercito di ragazzi formalmente promossi ma incapaci di comprendere un testo di media difficoltà.

Se vogliamo che la letteratura torni viva, la scuola deve spostare il proprio baricentro: non più “fare tutto il programma”, bensì educare al piacere della lettura e alla cittadinanza critica, modulando percorsi e traguardi in base agli indirizzi.
Nei licei classici ha senso un percorso su Montale e la tradizione simbolista europea; in un tecnico-economico funziona meglio un laboratorio su Calvino, l’industria culturale del boom e i linguaggi della comunicazione d’impresa. L’obiettivo è formare competenze trasversali – comprensione profonda, scrittura argomentativa, capacità di collegare testi, contesti e media –, non collezionare date e titoli.
A soffocare questo rinnovamento è anche la filiera delle Indicazioni nazionali, tuttora redatte da accademici che raramente sono mai entrati in una classe. Servono gruppi di lavoro misti, composti da docenti in servizio, formatori e ricercatori, con sperimentazioni sul campo prima della pubblicazione e una revisione quinquennale obbligatoria.
Trasparenza e stabilità dei finanziamenti devono sostituire le consulenze estemporanee; solo così si potrà chiarire dove vogliamo arrivare con l’insegnamento della letteratura italiana e quali competenze – lettura critica, scrittura multimodale, cultura scientifica, etica del digitale – vogliamo realmente sviluppare.
Una riforma organica esige anche una formazione docenti degna di questo nome. Oggi l’accesso alla cattedra assomiglia a una lotteria di corsi a pagamento, spesso online e di pochi mesi, che trasformano l’abilitazione in un affare di tasse d’iscrizione più che di qualità formativa. Occorrono scuole di alta formazione collegate alle università ma radicate nelle scuole, con un anno di tirocinio in classi tutor, selezione rigorosa e percorsi gratuiti finanziati dallo Stato. Solo docenti solidi, motivati e retribuiti con dignità possono restituire credibilità a un’istituzione accusata di ipocrisia e contraddizioni.
Sul versante tecnologico, il divieto assoluto di smartphone in aula è il segno di una scuola che preferisce negare la realtà anziché governarla. Il cellulare è ormai un’estensione della persona: vietarlo equivale a spegnere la corrente per evitare i cortocircuiti. Invece di proibire, occorre un patto di uso consapevole: modalità aereo durante le lezioni frontali, sblocco per ricerche e fact-checking, valutazione della responsabilità digitale nei consigli di classe.
Bandire lo strumento mentre il PNRR investe milioni in visori VR e stampanti 3D destinati a laboratori inagibili e palestre fatiscenti rende ancora più evidente la distanza tra proclami e realtà muraria.
Infine, la sfida dell’intelligenza artificiale. Il panico generato da ChatGPT agli esami di Stato rivela una scuola che difende il rito più che il senso. Blindare le prove non ha impedito l’uso furtivo dell’IA: avrebbe avuto più valore chiedere agli studenti di analizzare un elaborato prodotto da ChatGPT, evidenziarne limiti, bias, assenza di vissuto personale, e poi personalizzarlo. L’IA, priva di esperienza emotiva, è uno specchio che restituisce testi generici; la scuola può insegnare a riconoscere ciò che manca e a inserirvi l’impronta umana.
Ma il Titanic dell’istruzione non affonda per un iceberg improvviso, piuttosto per falle ignorate: programmi-museo, linee guida calate dall’alto, edifici scrostati mascherati da campus digitali. Riempire queste falle significa rimettere al centro lettura viva e pensiero critico, formare seriamente i docenti, integrare l’IA come strumento cognitivo e scegliere la manutenzione strutturale prima del gadget. Solo così potremo superare il “disastro” denunciato da Jacques Attali e trasformare la scuola italiana da spazio di ipocrisie a laboratorio di futuro.
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