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Home » Musica e concerti » BRUCE SPRINGSTEEN/ “The Lost Albums”: come la borsa magica di Mary Poppins

  • Musica e concerti

BRUCE SPRINGSTEEN/ “The Lost Albums”: come la borsa magica di Mary Poppins

Carlo Candiani
Pubblicato 1 Luglio 2025
Springsteen inedito

Springsteen inedito

Bruce Springsteen fa uscire contemporaneamente ben sette dischi mai pubblicati prima

Chi non ha mai visto la scena disneyana dell’arrivo di Mary Poppins nella casa dei Banks e il momento in cui la bambinaia magica, davanti agli sbalorditi pargoli di famiglia, poggia il suo borsone da viaggio sul tavolo della cameretta dei giochi e ne fa uscire una miriade di oggetti tra i più disparati?

Ecco, lo stesso sbalordimento è il sentimento che riscontriamo nell’avverarsi dell’uscita discografica monstre (da settimane evocata dalla stampa specializzata) di un cofanetto contenente ben sette album, nascosti nelle segrete stanze di famiglia, da poco più di trent’anni (1983-2018) da Bruce Springsteen.

Rendere pubblici gli archivi della propria produzione che non ha mai avuto ufficialità non è un espediente nuovo per gli artisti rock di lungo corso: da anni Bob Dylan, con periodicità variabile, libera sul mercato la sua “Bootleg Series”, ovvero concerti inediti, demo e versioni alternative (vere attrazioni per i collezionisti), una miniera inesauribile di percorsi musicali, anche se tutto diversamente già conosciuto.

Lo stesso Springsteen non è nuovo a queste operazioni “di ripescaggio”: ci ricordiamo “Track I” nel 1998 e il più contenuto doppio cd “The promise” che conteneva inediti dalle sedute in studio di “Darkness in the edge of town”, uno dei primi album della sua carriera.

Afferma il Boss: “Ho sempre pubblicato i miei dischi con grande attenzione, assicurandomi di raccontare storie che avessero una loro coerenza, l’una dopo l’altra e quindi non ho pubblicato questi dischi perché non si inserivano coerentemente nel mio arco narrativo creativo”.

Tra l’altro, il rocker del New Jersey, nella stessa lunga intervista rilasciata in questi giorni a “Rolling Stone”, ha pronunciato, suscitando un certo sconcerto tra i suoi fedeli supporter, una specie di abiura del suo album di maggior successo planetario: “Born in the USA” è diventato il disco che ho fatto, non necessariamente quello che volevo fare. Avrei voluto fare qualcosa di simile aNebraska (il suo disco precedente, oggetto di un biopic che uscirà in Italia nel prossimo autunno n.d.a.). Dall’idea iniziale alla realizzazione non è venuto il disco che avevo in mente (…) Entri in studio con un’idea e non è detto che il risultato gli assomigli (…) I temi di Nebraska ci sono, anche se mascherati da pop music”. E ancora: “Non avevo interesse a portare avanti quella cosa (…) subito dopo sono tornato alle radici da cantautore con “Tunnel of love””.

Ma come??? Decenni di recensioni per approfondire uno degli album rock più iconici (aggettivo abusato, ma oggi si usa così!) della storia e adesso lo stesso autore e interprete dice che alla fine è uscito sbagliato??? Come ammirare per anni una donna splendida e accorgersi che la sua bellezza non fosse vera!

Ma, in fondo, questa è la chiave di volta per giustificare questa bulimica uscita discografica: “Nel complesso questi album rappresentano generi musicali che non avevo esplorato. Sono tutti anomalie: che ci fai con una roba del genere? Non lo sapevo. Abbiamo risolto il problema in questo modo. (…) Ho sempre voluto scrivere di cose senza tempo: famiglia, lavoro, spiritualità, amore, sesso … cose che fanno parte della vita delle persone da sempre. È la strada che ho sempre seguito”.

E allora si spiega perché la maggior parte delle 83 canzoni di questi “album perduti” non rispecchiano il rock’n’roll nervoso e potente che lo impose all’attenzione mondiale, (magari al primo ascolto ci è sfuggito ma abbiamo notato l’assenza degli interventi del sax, strumento identitario dello Springsteen classico),  ma è una carrellata di brani spesso dal suono cupo, dal blues al loop elettronico, dalla pedal steeel strascicata del country più indolente,  alla melodia umbratile alla Burt Bacharach.

E sette album sono una enormità anche in una carriera così intensa. La loro pubblicazione contemporanea (il cofanetto costa un numero rilevante di euro, e se non siete dei fanatici collezionisti il consiglio è cominciare con la più approcciabile selezione sul cd singolo) rivoluziona la già ampia biografia discografica.

C’è chi ha scritto che il Boss così rende pubblico il suo universo parallelo artistico: forse non è esattamente così.

Questi sette album, così diversi tra loro, per cronologia e confezione musicale sono la conferma da parte di Springsteen che la sua arte rock è espressione dell’amore  per la storia della sua terra e per i suoi suoni, per le sue atmosfere, per quel popolo, esempio unico di meticciato. 

Springsteen lo osserva attentamente, ne coglie i sentimenti, ne canta le speranze, le delusioni, le contraddizioni, la fede nell’uomo e in un Dio che si scorge appena.

Il Boss vuole essere empatico, la sua musica (e i suoi testi) vivono del filtro  della sua stessa storia personale, degli incontri, della vita famigliare, delle sue depressioni, delle sue passioni.

Non c’è un universo parallelo in Springsteen, c’è invece un suo calarsi dentro la realtà per trasformarla in canzone.

E non è che tutte queste appena pubblicate siano indimenticabili, anzi, forse un buon numero potevano rimanere nel nascondimento di un cassetto irraggiungibile. Ma le salva l’urgenza con la quale sono state pensate e realizzate.


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E questo vale per ogni album di questo cofanetto:


Da “Garage Sessions ‘83”, l’artigianato rock, quello fatto in casa, a cavallo tra “Nebraska” e “Born in the USA ” a “Streets of Philadelphia sessions” la ricerca elettronica di un suono cupo per raccontare storie difficili e intime; da “Faithless” (secondo chi scrive questo articolo l’inedito più convincente), colonna sonora di un film “western metafisico” mai realizzato con gli echi ai suoni dell’America del blues e della tradizione gospel in bilico tra Woody Guthrie e Pete Seeger a “Somewhere North of Nashville” ancora storie di uomini e donne al ritmo del country più tradizionale, echi di Ry Cooder, concepito contemporaneamente a “The ghost of Tom Joad” ricalca gli stessi stilemi narrativi, il suono è crepuscolare anche se non disdegna il rock’n’roll di “Repo Man” (in “odore” di Bill Haley). C’è la collaborazione di parte della E Street Band.

Da “Inyo”, forse l’album più “politico”: storie di frontiera, al confine tra la California e il Messico, storie di immigrazione, temi già trattati in altri album ufficiali, storie di attualità sociale di ingiustizie (ricordiamoci che le canzoni sono state scritte nella prima metà degli anni ’90). Suonato con un gruppo di mariachi, ha ancora come punti di riferimento  le atmosfere ispirate da Ry Cooder, Calexico e Jackson Brown a “Twilight hours”, canzoni scritte nella seconda decina dei 2000, potevano essere comprese in “Western stars”, l’album orchestrale e “nostalgico” del Boss, che fece infuriare i sostenitori più integralisti al rock, ma fece scoprire uno Springsteen “crooner”, che omaggiava l’epoca dei Roy Orbison e Harry Nillson.

In questa tracklist emergono le sonorità più notturne dell’ ultimo Bacharach (quello di “Painted from memory” in coppia con Elvis Costello), senza dimenticare la lezione del repertorio più riflessivo e meno swing di Frank Sinatra.

E per concludere “Perfect world”, un perfetto non-album, una summa di brani scritti in diversi tempi e con diversi temi musicali: e chi il rock della E Street Band si fa più presente. Tracklist  eterogenea “al quadrato”, in una rassegna di album compatti e con una idea precisa all’interno ma estremamente  eterogenei tra loro.

Alla fine di questo viaggio inedito, ci possiamo fare la domanda iniziale: ne valeva la pena? Le canzoni sono tante e si rischia l’abbuffata indistinguibile dove un certo numero di brani dimenticabili offuscano veri propri gioiellini che rimarranno nel repertorio ufficiale del rocker del New Jersey. Ci vorrà tempo e pazienza per assimilare questi pezzi “nuovi”, e capire se alla fine sarà stata solo una operazione di marketing (per fare legittimamente un po’ di “cassa”).

Di certo rimane che, nonostante questo “tsunami” di canzoni, Springsteen abbia già annunciato che ci sia in preparazione una “Tracks III”, che ci sia pronto il secondo cd di cover “soul” e che sia in dirittura d’arrivo un album in solitaria di brani inediti. Ma oltre a tutto ciò, ancora una volta, il Boss conferma, con tutta la sua produzione, a volte bulimica e debordante, il grande ruolo della sua musica nel narrare il presente, fino a essere profetica, con una promessa finale: “Come Willie Nelson, tanti padri del rock hanno continuato ad esibirsi superati gli 80 anni. E i Rolling Stones sono una fonte d’ispirazione fantastica. Stanno suonando meglio che mai, come del resto Paul McCartney. E Bob Dylan è ancora in giro. Sono un po’ più vecchi di me e dimostrano che, ehi, non è ancora tempo  di fermarsi. Ci sono ancora tanti chilometri da fare”.

E allora, buon viaggio Bruce, and God bless you!


VERSO IL MEETING/ Il potere salvifico delle canzoni rock e pop riconosciuto anche dai Papi


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Tags: bob dylanPaul Mccartney

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