Come Giacomo Contri aveva rilevato, oggi ci vorrebbe un ritorno ad Agostino. A fondare la nostra “Città” di uomini è una relazione tra persone. Divine
L’elezione di Papa Leone XIV al soglio pontificio ha riacceso l’attenzione su sant’Agostino, uno dei pensatori cristiani più amati anche al di fuori della cerchia dei credenti. Il filosofo nordafricano, cittadino romano e cristiano, è stato per secoli un faro di civiltà poi relegato “tra gli aspetti più ammuffiti dell’insegnamento universitario”.
Così si esprimeva Giacomo B. Contri (1941-2022) in un’intervista evergreen, dallo spessore di un saggio, rilasciata nel 1992 alla rivista internazionale 30Giorni, che potremmo immaginare rilasciata oggi, a ridosso dell’elezione del nuovo Papa.
Nell’intervista l’intellettuale e psicoanalista milanese si concentra sull’attualità civile e politica, nonché morale e psicologica del De Civitate Dei, un’opera, dice Contri, “che non si presta a un corso universitario, ma a una lettura e rilettura attuale. E riscrittura. E ripensamento (…). Se Agostino non l’avesse scritta – ma anche ora che l’ha già scritta –, toccherebbe a noi”.
Contri ha tenuto fede all’intento dichiarato, non solo ricapitolando l’opera di Agostino assieme ad autori contemporanei, iniziando da Freud, Lacan, Kelsen, Marx ed altri, ma utilizzando la distinzione agostiniana tra le due Città come una bussola per muoversi su territori solo apparentemente estranei: l’anima individuale, la città, la politica, l’economia.
Una frase a forma di slogan o di titolo di giornale utilizzata da Contri a più riprese afferma che “due sono le Città, una (sola ndr) è la Città dei malati”. Le due Città, una di Dio l’altra dell’uomo, sono per Contri entrambe terrene, definite da due mete e due fonti distinte. Entrambe sono fondate su articolazioni diverse del diritto: una a fonte individuale, l’altra statuale. Entrambi sono diritti positivi, ovvero posti. Ogni persona vive nell’intersezione tra i due diritti che fondano le due Città.
Ma è il primo diritto a fondare il secondo (non viceversa), perché si tratta della facoltà con la quale ciascuno autonomamente si regola nei rapporti per il proprio appagamento e soddisfazione; nel linguaggio di Agostino, per la propria felicità.
Il primo diritto è la facoltà con cui ognuno si orienta nella ricerca della felicità, anche (ma non solo) attraverso le leggi dello Stato. Abitare nella prima Città “vuol dire che uno (…) non ha più bisogno di aspettare – lo Stato, le riforme, la rivoluzione, la controrivoluzione, il welfare, la giustizia sociale e tutto ciò che, dicono, il mondo dovrebbe fare per lui – per vivere, muoversi, desiderare, domandare, incontrare, per l’appagamento in società e universo”.
Agli antipodi al vivere nelle due Città stanno l’uomo e la donna “a una sola dimensione” che Contri nell’intervista riconduce al professionismo: un soggetto ingabbiato da norme, codici e regole sempre eteronome. Un esito possibile dell’abitare in una sola città è la “querulomania”: una psicopatologia non clinica a cui Contri ha dedicato molta attenzione, come esito del rinnegamento dell’appartenenza alle due Città.
In un passaggio dell’intervista, condotta da Stefania Falasca, Contri sorprende l’interlocutrice, ma credo anche molti lettori di ieri e di oggi, dichiarando una sua personale ambizione: “La mia ambizione, il mio sforzo – cui le mie forze sono impari – è di trattare il De Civitate Dei e il De Trinitate di Agostino come una sola opera”. “La Città di Dio – aggiunge Contri – è il più laico dei libri”.
Lungi dall’essere uno sterile esercizio mentale, cogliere il nesso proposto da Contri è cruciale per orientarsi nei tempi tragici in cui viviamo. Nel De Trinitate Agostino, occupandosi delle tre Persone divine, non si occupa di individui, ma di relazioni. Si occupa di una società tra persone in relazione tra loro in un rapporto non gerarchico di parità (Trinità e patriarcato, e in genere Trinità e rapporti di forza, di subordinazione o guerreschi, non hanno nulla a che spartire).
“La Città di Dio – prosegue Contri – (…) significa che Dio alla fin fine vuol dire città e città vuol dire Dio, vuol dire cioè, immediatamente, la possibilità del rapporto fra gli uomini, donne comprese. Proprio ciò in cui la storia non fa che registrare fallimenti”.
È un passaggio cruciale, che decreta la fine della distinzione tra micro e macro, tra individuale e istituzionale, tra morale individuale e realpolitik statuale. La Città di Dio è una costruzione terrena – di cui Dio stesso incarnandosi si è fatto primo cittadino – che ha come meta l’edificazione di rapporti “tra beneficiari”: tra individuo e individuo, tra Stato e Stato di cui la relazione Padre-Figlio-Figlio-Padre è l’emblema e la bussola.
Il nome che Agostino dà a tale relazione è Giustizia. Senza il riferimento a tale nome il mondo cessa di essere un habitat umanizzato, per pervertirsi in un luogo immondo, desolato e violento, dove scorrazzano senza meta e costrutto piccole o “grandi bande di ladri” (Agostino, La Città di Dio, Libro IV).
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