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Home » Cultura » LETTURE/ Rileggere Gogol’ per capire (e riformare) la burocrazia italiana

  • Cultura

LETTURE/ Rileggere Gogol’ per capire (e riformare) la burocrazia italiana

Domenico Bilotti
Pubblicato 8 Luglio 2025
(Pixabay)

(Pixabay)

I personaggi di Gogol’ emergono dall’800 russo, ma opere come “L’ispettore generale” ce li ripropongono in una veste purtroppo attualissima

Nikolaj Gogol’ (1809-1852) aveva tutte le carte in regola per diventare un testimone del suo tempo; vagando asmaticamente in esso, diventa un esiliato destinato all’immortalità letteraria.

Non è un caso che la critica contemporanea a questo scrittore si divida quasi subito in due, come quasi subito in due si divide la sua biografia e la sua estetica.


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Ci sono quelli che ne elogiano il realismo spiritoso e il vorticoso uso di paradossi ed equivoci: una sorta di Plauto più eretico e meno erotico.

Ci sono però anche quelli che ne notano la postura sentenziosa, da Savonarola e Cassandra della società e dell’amministrazione russa. E in effetti da monaco spiritato Gogol’ va a morire: tormentato da crisi mistiche, assediato dal concretissimo nemico immaginario della decadenza dei costumi. Penitente impunito: non partecipa al secolo, chiuso in un bozzolo ermetico se ne fa travolgere e affamare.


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L’inizio è di quelli promettenti, perché il Nostro individua da subito il segreto di ogni durevole successo artistico: la scelta di un bersaglio. Il suo si chiama poslost’: sorta di intraducibile costume passivo, al crocevia tra grettitudine morale e cattivo gusto personale. Non a caso, la sua resa in lingua italiana più frequente, anche tra la critica, è “volgarità”. Ed è poco e troppo insieme: è la meschinità becera, più codarda che maliarda.

Solo che a forza di descrivere troppo bene il tuo bersaglio, lo spettatore non riesce più a star dalla tua parte: teme di essere lui, il bersaglio. Poi la Russia, già la Russia di allora, è immensa: e allora Gogol’ quasi impazzisce. Come può un testo che vende repliche e riempie sale a San Pietroburgo venire disertato a Mosca? È in fondo questo il destino di una delle opere più emblematiche di Gogol’: L’ispettore generale, pubblicata nel 1836.


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I gaudenti parassiti ammantati di viltà sono, diremmo oggi, dei boiardi di Stato: sono il corpaccione dell’amministrazione zarista. Una vera e propria costante della Russia cortigiana (e l’Italia?): gli alti ranghi del pubblico impiego fidelizzano e feudalizzano.

Badiamo, un secolo dopo Gogol’, al destino dello stalinismo: davvero mai un socialismo realizzato, seppure in un “Paese solo”, curiosa antifrasi per l’internazionalismo marxista, ma uno Stato totale a scale e cerchi, e soprattutto cerchie.

L’ispettore generale è una di quelle cariche sontuose un po’ vere e un po’ false, che dicono e decidono tutto e niente: basta che siano un rango, una carica, una divisa e una procedura (purchessia, ma procedura). L’ispettore generale è un messo delegato, una incarnazione locale del potere totemico. È commissario prefettizio, è ministro plenipotenziario, è presidente dell’Autorità garante.

Giovane virgulto venuto da Roma (o Mosca), ha solo i lustrini: non conosce i territori e perciò tutti i territori si prodigano a corrergli in omaggio. E che succede quando, oltre a quello scambiato per ispettore generale, arriva finalmente e mai annunciato l’ispettore generale vero? Accetteranno i cortigiani d’aver servito un semplice funzionario di fatto, e che ne sarà di lui?

Gogol’ uomo di teatro critica la società russa del XIX secolo, ma è il XX che lo ha letto e preso a modello. Nei suoi testi è spesso minuziosamente descritto come si vestano, preparandosi per uscire o incontrare qualcuno, i suoi personaggi. Se leggiamo il nostro De Filippo, con didascalie dove può trovarsi scritto dove si trova la caffettiera o quando si aprono le tendine della stanza, qualche assonanza ci viene subito in mente: lo spettatore vede lo spettacolo che inizia e si mette in moto sotto i suoi occhi. Un’intera classe sociale è sviscerata nel suo mettersi in cammino verso la vita quotidiana.

Un tratto celebre della scrittura gogoliana è lo skaz, che ricorda il termine italiano per indicare la pigrizia astiosa e invece vuol dire qualcosa di più preciso: portare al testo scritto la semantica (mimica, gergale e culturale) del parlato. Non a caso il termine piace a comici italiani come David Riondino e Paolo Rossi, che si immergono nello “skaz” italiano della Milano di periferia tra anni Ottanta e Novanta.

Di certo la lingua di Gogol’ ha una grande propensione all’oralità. Più che una lingua giuridica, fatta di ingiunzioni, sembra una lingua della mediazione (anche quella parassitaria e fraudolenta), della conversazione destinata a rimarcare la differenza di posizioni tra gli interlocutori. Ci si immergono, quasi ci si confondono.

Senza gli ispettori generali di Gogol’ non avremmo avuto i grigi fantasmi dei giudici e soprattutto cancellieri kafkiani: categorie, queste ultime, che non appartengono allo schema del processo, ma che lo ingombrano e trasformano fino al punto di diventarne i veri e fondamentali attori anonimi.

E non avremmo avuto nemmeno i bolsi di Cechov, quei pigri gigioni della loro mediocrità, che sembrano subire la vita, preferendo il moto inerziale di consuetudini mai messe in dubbio alla capacità di trasformazione del conflitto rispetto alle istituzioni.

E soprattutto Gogol’ dobbiamo rileggercelo per capire dove la burocrazia inceppa il benessere, dove la rete di garanzie diventa marmellata di forme. Dove tutto è scritto in conto terzi, non si vive e non si produce, si ossequia per ottenere: si celebrano soltanto repliche infinite del medesimo (ignobile) spettacolo.

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