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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » SCENARIO USA/ “Dazi & dollaro, un reality economico-finanziario che inganna Trump”

  • Economia Internazionale
  • Usa

SCENARIO USA/ “Dazi & dollaro, un reality economico-finanziario che inganna Trump”

Int. Giuseppe Di Gaspare
Pubblicato 16 Luglio 2025 - Aggiornato 8 Agosto 2025 ore 17:04
Wall Street, New York (Ansa)

Wall Street, New York (Ansa)

La posta in gioco nelle politiche di Trump non è solo il successo dei dazi, e nemmeno il rimpatrio delle catene produttive, ma il destino del dollaro (1)

Trump rischia l’innesco di una crisi sistemica conseguente alla svalutazione del dollaro. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, glielo ha fatto notare, ma Trump lo ha definito “uno stupido”. Il problema, spiega Giuseppe Di Gaspare, già ordinario di diritto dell’economia alla LUISS di Roma, è che Trump siede sullo scranno principale della “potenza consumatrice egemone” – gli Stati Uniti – senza apparentemente comprendere come funziona il “meccanismo dollaro-centrico” che ha garantito il primato politico, economico e finanziario della valuta statunitense nel secondo Novecento.


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Paradossalmente, con i suoi dazi Trump potrebbe innescare una crisi del sistema-dollaro portando gli Usa in stagflazione, e “senza neppure ottenere un qualche rilancio dell’economica produttiva interna”. Se così fosse – è lo scenario di Di Gaspare – l’eterogenesi dei fini sarebbe completa.

Ne abbiamo parlato cominciando da una frase di Guido Carli del 1986, citata da Di Gaspare in un recente saggio. “Appare evidente che questa struttura degli scambi internazionali contiene in sé stessa la causa del suo venire meno. Il disavanzo americano presuppone che il resto del mondo sia disposto ad esportare risorse reali degli Stati Uniti in cambio di segni cartacei”.


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Professore, quella di Carli sembra una profezia che si sta realizzando sotto i nostri occhi.

Sì, la considerazione è profetica. Carli coglie, a metà degli anni 80, l’instabilità intrinseca di un sistema monetario internazionale senza più un baricentro a seguito dell’abbandono della convertibilità del dollaro in oro. Un sistema in cui gli altri Stati sono disposti ad esportare “risorse reali negli Stati Uniti in cambio di segni cartacei”, cioè dollari – segni cartacei filigranati – emessi a discrezione dalla Fed e non più convertibili in oro. La domanda di oggi è fino a quando possa durare.


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Nel suo saggio del 2011 Teoria e critica della globalizzazione finanziaria lei ha spiegato come funziona il sistema monetario statunitense dopo Bretton Woods. Partiamo da qui.

Ho chiamato quel sistema “meccanismo dollaro-centrico”. È un sistema che sorregge e a sua volta si regge sull’egemonia del dollaro. Nella globalizzazione finanziaria, innescata dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale, l’equilibrio del sistema monetario è slittato dalla bilancia commerciale, com’era in precedenza nell’“economia-mondo”, alla bilancia dei pagamenti. L’equilibrio è divenuto dipendente dal surplus dei flussi monetari in entrata nel “meta-mercato finanziario”.

Dunque un equilibrio volatile, potenzialmente instabile.

Certo. E per effetto della liberalizzazione dei movimenti di capitale in entrata, ma anche in uscita, quell’equilibrio deve essere stabilizzato, rafforzato e reso credibile con politiche come il “keynesismo finanziario”, l’occultamento del debito privato, del debito pubblico degli Stati federati nonché delle municipalità.

Occultamento? Di cosa stiamo parlando?

Semplificando, di un mega-reality economico-finanziario. Il “reality dollaro-centrico” narrativizza, manipola i dati e rafforza la percezione mediatica della performance positiva dell’economia statunitense. In questo modo induce alla convenienza degli investimenti nel suo mercato finanziario.

Quali sono i rivolti di questo fenomeno per l’economia reale?

La storia delle dinamiche della globalizzazione e delle sue crisi sistemiche ha coinciso, e coincide tuttora, con quella della crescente emancipazione della speculazione finanziaria dai vincoli dell’economia reale e dalle sue regole di stabilità economica.

E quali invece le criticità del “reality” dollaro-centrico?

Nelle criticità strutturali rientrano sia il deficit commerciale, funzionale però alla trasformazione degli Usa nella “potenza consumatrice egemone”, sia il debito pubblico; canale essenziale, a sua volta, del drenaggio dollaro-centrico.

Ci spiega come funziona il sistema descritto? 

L’equilibrio dei flussi monetari poggia sul deficit strutturale di un’economia aperta agli scambi. Il riequilibrio dei flussi in entrata per gli investimenti finanziari compensa il deficit commerciale e il deficit del bilancio federale. L’incerto fondamento finanziario della ristabilita egemonia monetaria degli Usa viene quindi celato nella sua strutturale debolezza, sostenuto con accorti camuffamenti di scenario e strategie comunicative rassicuranti.

Continui. 

L’andamento negativo dell’economia reale statunitense, causato dalla supply side economy impostasi negli anni 80 e orientata ai consumi, è funzionale alla crescita del debito privato, il quale costituisce la linfa, a sua volta, della finanza derivata. Il deficit commerciale erode e al tempo stesso promuove l’equilibrio dinamico dollaro-centrico, demolendo progressivamente la struttura industriale del Paese, sempre meno competitiva nel mercato globalizzato.

La stessa “struttura industriale” che Trump vuole riportare negli Usa. È qui che troviamo i presupposti che lo hanno portato alla Casa Bianca? 

Sì, perché la tensione tra il progressivo deperimento dell’economia reale, con conseguente impoverimento delle aree interne – come la Rust Belt – e la concentrazione della ricchezza nelle grandi megalopoli costiere finanziarie e high-tech  è la cesura socioeconomica all’interno della quale è lievitato il trumpismo.

Cosa rappresenta il “dazismo” di Trump nel contesto che ha appena spiegato? 

Trump è ben avvertito delle conseguenze negative all’interno degli Usa e sulla ex middle class delle criticità strutturali del deficit commerciale e del debito pubblico, ed è intenzionato a porvi riparo, ma senza rendersi bene conto degli effetti collaterali sistemici sul meccanismo dollaro-centrico, di cui sembra ignorare il funzionamento e il sotteso cambiamento di paradigma.

Siamo di nuovo al punto cruciale. Possiamo spiegarlo meglio?

Alla fine degli anni 70 gli Stati Uniti erano di fronte a un’alternativa: quella tra il recupero della stabilità economica, accompagnata dalla perdita dell’egemonia monetaria, e la conservazione dell’egemonia monetaria, accompagnata dal mantenimento dello squilibrio economico interno. Hanno scelto la seconda soluzione.

Perché?

La perdita dell’egemonia mondiale deve essere sembrata allora, come del resto sembra oggi, un prezzo troppo elevato.

E poi cosa è successo?

Washington ha messo “fuori scena”, già negli anni 80, il deficit commerciale dalla rilevazione dei dati macroeconomici significativi dell’economia statunitense. Il mascheramento ha coperto il crescente disavanzo strutturale dell’economia americana e la trasformazione, nello stesso tempo, degli Usa nella “potenza consumatrice egemone”. L’unico Paese in grado di pagare le crescenti importazioni di beni e servizi in cambio di moneta emessa a costo zero dalla Fed. Questi dollari sono stati volentieri accettati dai Paesi esportatori – come la Cina –, perché il surplus dei capitali in entrata nella bilancia dei pagamenti rende stabile e attrattivo il dollaro per gli investimenti finanziari in quella valuta.

E adesso?

È un circolo virtuoso che ora con Trump rischia di invertirsi. È proprio perché gli Stati Uniti, accumulando disavanzo a disavanzo, sono diventati la “potenza consumatrice egemone” che Trump può minacciare dazi a destra e manca, anche se non minacciando tutti allo stesso modo. Con la Cina probabilmente ha già chiuso un gentlemen’s agreement. Con l’Unione Europea la partita è aperta. Forse siamo nella posizione peggiore. Ma non è questo il punto centrale.

Quale sarebbe, secondo lei? L’inversione del circolo?

Esattamente. L’inversione del circolo prociclico dollaro-centrico, in equilibrio tra avanzo della bilancia dei pagamenti e disavanzo della bilancia commerciale, potrebbe, per effetto del dazismo, ingenerare l’inversione dei flussi monetari in entrata nell’onnivoro meta-mercato finanziario statunitense, innescando la crisi sistemica del meccanismo dollaro-centrico, senza neppure ottenere un qualche rilancio dell’economia produttiva interna.

Questo che cosa comporterebbe?

Per certi aspetti, una riedizione più traumatica della cosiddetta stagflazione, ossia l’effetto combinato di inflazione e svalutazione. Senza però avere più la via d’uscita ideata allora del meccanismo dollaro-centrico. Si rischia l’innesco di una crisi sistemica conseguente alla svalutazione del dollaro. È esattamente ciò che teme Jerome Powell.

Qual è allora l’errore del dazismo trumpiano?

Sta nel non far tesoro del fallimento dei precedenti tentativi di riequilibrio della bilancia commerciale al tempo di Nixon e Carter. Già allora il dollaro debole non era stato in grado di favorire la ripresa della produzione interna e delle esportazioni. Le politiche isolazioniste non erano riuscite a ridare competitività all’economia e a contenere il deficit strutturale della bilancia commerciale.

Quindi?

Trump ignora la funzione essenziale della bilancia dei pagamenti nel sostegno al dollaro. Ovviamente non è il solo…

Riepiloghiamo. Lei ci sta dicendo che il surplus nella bilancia dei pagamenti compensa il deficit nella bilancia commerciale. Questo avviene, per usare le sue parole, in maniera “occulta”. In che modo?

Mentre nella bilancia commerciale gli scambi di merci e servizi sono rubricati come “partite visibili” e tali sono nella realtà, nella bilancia dei pagamenti i flussi di capitale speculativi sono registrati come “partite invisibili”, meri contrassegni telematici che sfuggono ai radar degli economisti, concentrati, invece, sulle criticità degli scambi di merci e servizi globalizzati, accentuate dalle sbandate dell’amministrazione americana.

Quanto pesano gli uni e gli altri?

I movimenti speculativi costituiscono circa il 90% dei movimenti complessivi monetari, a fronte del rimanente 10% soggiacente allo scambio di merci e servizi. (1 – continua)

(Federico Ferraù)

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Tags: Donald TrumpEconomia USA

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