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Home » Politica » INCHIESTA MILANO VISTA DA SX/ “Un gruppo di potere s’è preso la città, ora il Pd dica chi comanda davvero”

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INCHIESTA MILANO VISTA DA SX/ “Un gruppo di potere s’è preso la città, ora il Pd dica chi comanda davvero”

Gennaro da Varzi
Pubblicato 22 Luglio 2025
Sindaco Sala in Consiglio Comunale

Giuseppe Sala, il sindaco di Milano interviene in Consiglio Comunale dopo l'inchiesta sull'urbanistica (ANSA 2025, Mourad Balti Touati)

L’inchiesta di Milano pone un problema politico: i grandi gruppi sono padroni di un territorio dove la sinistra (in teoria al potere) è stata ridicolizzata

C’è qualcosa che nessuno ha il coraggio di dire sulle vicende milanesi di questi giorni. Un po’ per pudore, un po’ perché conviene a tutti scaricare sul povero Sala tutte le decisioni, e un po’ per paura che il dibattito degeneri ancora di più.

Ma ogni tentativo di confinare il tutto in un recinto locale – “tocca all’amministrazione comunale risolvere il verminaio portato alla luce dall’indagine della magistratura” – è una tesi che fa acqua da tutte le parti. Così come è patetico respingere ogni paragone con le tristi vicende di Tangentopoli, scoppiata nella stessa città 42 anni fa. Come si fa a non vedere le analogie, o peggio ancora a ignorare che la politica sta rifacendo gli stessi identici errori?


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Una premessa è doverosa, e riguarda la decisione che Beppe Sala ha illustrato in queste ore dentro una sala consiliare dove la tensione si tagliava a fette. Fuori, sotto il sole cocente, una folla che non si vedeva da tempo di sostenitori radunata in piazza della Scala perché dentro non c’era più posto.

Diciamolo subito: la scelta di “restare” perché ha “le mani pulite” è giusta e comprensibile. Perché mai Sala dovrebbe dimettersi? Un avviso di garanzia – peraltro recapitato via stampa – certifica una cosa molto semplice: che la magistratura sta indagando a tutto campo, e che anche i comportamenti del sindaco rientrano in quel perimetro. Ma è un’indagine, e avrà il suo corso. I risultati si vedranno (forse) nei prossimi mesi.


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La questione politica, però, è tutt’altra faccenda. E impone risposte immediate. Riguarda innanzitutto le scelte di politica urbanistica, e – cosa altrettanto grave – il modo in cui un gruppo di potere è riuscito di fatto a espropriare i rappresentanti eletti della loro funzione di controllo del territorio. Non siamo solo davanti all’ennesimo duello tra politica e magistratura (che pure c’è, ed è solo all’inizio). Siamo nel cuore di un business miliardario che ruota attorno allo sviluppo immobiliare dell’unica città d’Italia dove gli immobili hanno ancora valore.

La vera domanda allora è: com’è stato possibile che un gruppo di potere si sia infiltrato così a fondo nelle maglie di un apparato amministrativo vasto ed esperto? Com’è potuto accadere che un’azione sistematica di lobbying a favore dei grandi gruppi non solo non sia stata percepita come una minaccia, ma addirittura accolta come parte legittima del gioco?


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La risposta, per quanto scomoda, è semplice. È stata possibile per via di una colossale confusione di ruoli, a cominciare dall’assessore Tancredi che si è infatti dimesso. Mi spiego meglio. Il gruppo di pressione –  che oggi possiamo finalmente chiamare con i loro nomi: i Boeri, i Catella, le De Cesaris, eccetera – negli ultimi anni ha condotto in prima persona una battaglia politica in nome del riformismo, pretendendo un posto all’interno della maggioranza.

Un riformismo di marca milanese, di chiara matrice socialista e post-craxiana, che si è autoproclamato l’unico legittimo interprete del “buon governo”. Il risultato? Ogni altra posizione, soprattutto se di “sinistra”, è stata ridicolizzata, silenziata o espulsa dal discorso pubblico. Milano è diventata una roccaforte centrista, un fortino moderato del centrosinistra dove ogni pulsione radicale è stata sedata sul nascere. Riducendo a zero i necessari anticorpi di cui la politica ha bisogno per non cedere agli interessi privati.

E non si tratta solo di teorie: queste forze hanno occupato per anni posizioni chiave nel centrosinistra, passando senza battere ciglio dal sostegno a Bersani (la De Cesaris fu persino responsabile della sua campagna alle primarie del 2012) al cerchio magico renziano, fino ad animare oggi qualsiasi nuova avventura centrista, dentro e fuori dal PD. Ecco perché serve una risposta politica di ben altro livello: in ripristino dell’autonomia piena del PD, e della giunta Sala, dall’abbraccio mortale del potere economico, richiede il ridimensionamento di questo pezzo della stessa maggioranza.

Che questa influenza abbia avuto ricadute gravi sui comportamenti dell’amministrazione comunale è ormai evidente. Quando si denunciava che Milano, da città aperta e attrattiva, si era trasformata in una vetrina esclusiva pronta a espellere i ceti popolari, si veniva accusati di fare allarmismo. Ora, con le carte sul tavolo, tutto diventa più chiaro. Basti un esempio su tutti: l’intercettazione in cui la De Cesaris deride – con tono infastidito – un timido tentativo di difendere il commercio di prossimità. Quello vero, quello dei quartieri, non delle gallerie del centro messe all’asta per milioni di euro di affitto.

Ecco il punto politico: se il riformismo non è incardinato in un sistema di valori e principi condivisi, se non si confronta con i bisogni popolari a cui si chiede il sostegno, finisce per somigliare a quello che stiamo vedendo. Un ceto politico e tecnocratico che confonde i propri affari con i bisogni di una città. E diventa un rischio per la credibilità stessa del centrosinistra. Milano ha bisogno di una svolta. Di sapere, una volta per tutte, chi comanda davvero nel centrosinistra. E questo vale per l’Italia intera.

Serve dare più potere ai cittadini e ai loro rappresentanti. E magari se questo significa qualche grattacielo in meno, ce ne faremo una ragione. Se Inter e Milan si faranno i loro stadi privati a Sesto o Rozzano? Che lo facciano pure ma con i loro soldi. Se Milano deve tornare a essere dei milanesi che ci vivono e ci lavorano, si potrà pure rinunciare a qualcosa. Anzi, è ora di farlo.

 

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Tags: Giuseppe SalaMatteo RenziPier Luigi Bersani

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