Federvini preoccupata per i dazi USA, che forse saranno del 15%. Potrebbero avvantaggiarsene i Paesi concorrenti. L’Italia intanto cerca altri mercati
Il mercato americano è cruciale per i vini italiani, non per niente l’effetto dei dazi è temuto soprattutto nell’agroalimentare.
L’esito della trattativa tra USA e UE sulle tariffe aumentate del 30% (che sembra si possa concludere con un accordo al 15%) sarà quindi importante per il settore, che, tra l’altro, spiega Gabriele Castelli, direttore di Federvini, rischia di subire la concorrenza di Paesi sudamericani e dell’Australia, in forza del fatto che nei loro confronti viene applicato un dazio del 10%.
Qualunque sia l’esito della vicenda, intanto, per evitare rischi, i produttori italiani sono già alla ricerca di altri mercati che li mettano al sicuro da altri inconvenienti sul mercato americano.
Quali sono i numeri del mercato americano per i vini italiani prima dei dazi. Quanto contano gli USA per il nostro export e che tipo di prodotti vengono commercializzati soprattutto?
Il mercato statunitense ha una grande importanza per il settore, dal momento che rappresenta un segmento chiave per l’export vitivinicolo italiano, con importazioni complessive pari a 2 miliardi di euro e una crescita annua del 6,6% (dati doganali USA). Gli Stati Uniti assorbono circa il 25% delle esportazioni vinicole italiane complessive. In termini di prodotto, i vini fermi e frizzanti coprono un valore di 1,4 miliardi di euro, mentre gli spumanti raggiungono 632 milioni di euro, evidenziando la forte domanda per queste tipologie nel mercato americano.
Se i dazi dovessero rimanere al 30%, quanto potrebbero incidere sulle nostre esportazioni? Ci sono delle simulazioni sui possibili effetti di questo provvedimento in termini di fatturato e occupazione?
Non sono ancora disponibili simulazioni dettagliate sugli effetti precisi del dazio del 30%, ma, considerando l’elasticità al prezzo, un’imposta di questa entità rischia di bloccare quasi completamente le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti. L’impatto sarebbe troppo elevato per essere assorbito lungo la catena commerciale, mettendo a rischio la stabilità di un sistema economico virtuoso che ha creato valore e occupazione in Italia e negli Stati Uniti.
Alle nostre esportazioni sono collegate le filiere americane che in questi anni sono cresciute, dando lavoro e creando valore. Potrebbero agire su Trump per fargli cambiare idea? Lo stanno già facendo?
Certamente. Da quanto sappiamo, la filiera statunitense impegnata nelle attività di importazione, distribuzione e vendita ha già attivato diverse iniziative per far sentire la propria voce. Inoltre, organizzazioni come la U.S. Wine Trade Alliance, Napa Valley Vintners, WineAmerica e Wine Institute stanno lavorando a Washington per proteggere il settore.
I dazi non colpiscono solo i produttori europei, ma anche quelli americani, causando instabilità, licenziamenti e perdite di mercato, come sta accadendo in Canada. La battaglia per un accordo stabile e favorevole continua, quindi, con forte impegno da parte di entrambe le sponde dell’Atlantico.
Tra USA e UE ora si parla di un accordo per dazi al 15%. Potrebbero esserci delle soluzioni differenziate a seconda dei settori merceologici? Come Federvini cosa chiedete? C’è un limite sotto il quale i dazi diventano accettabili?
Il contesto geopolitico attuale è molto complesso, ma Federvini auspica che prevalga un approccio pragmatico da parte della diplomazia europea, come sostenuto fin dall’inizio dal Governo italiano, per ricomporre la frattura nei rapporti transatlantici. L’obiettivo è raggiungere una conclusione politica efficace dei negoziati, trovando un equilibrio sui dazi, evitando livelli che mettano a rischio la competitività delle imprese italiane ed europee.
C’è il rischio che condizioni così gravose per il vino italiano favoriscano altri Paesi esportatori che possono guadagnare quote di mercato? Chi potrebbero essere i nostri competitor?
Questo è un rischio che potremmo correre: l’aumento dei dazi rischia di favorire la sostituzione del vino italiano con prodotti alternativi nel mercato statunitense. In particolare, i consumatori USA potrebbero rivolgersi maggiormente ai vini domestici, come quelli californiani, che non subiscono dazi aggiuntivi.
Inoltre, l’aumento delle tariffe sull’importazione di vino italiano potrebbe spingere i consumatori verso paesi terzi come Argentina, Australia e Cile, che beneficiano di un dazio più basso, pari al 10%. Questi Paesi rappresentano, quindi, i possibili competitor potenziali in caso di dazi elevati sul vino italiano. Oltre al dazio, va poi preso in considerazione il tasso di cambio. Quei Paesi, come l’Argentina, la cui valuta nazionale è legata al dollaro, risentiranno meno della svalutazione in corso, perché il dollaro debole è un altro dazio mascherato.
Comunque finisca il negoziato fra Europa e Stati Uniti, questa vicenda spingerà le nostre imprese a valutare alternative al mercato americano, a diversificare i mercati, cercando di conquistare altri Paesi? Questa vicenda, volenti o nolenti, finirà per orientare diversamente il settore?
Sì, la questione dei dazi ha rappresentato un vero “campanello d’allarme” sull’importanza crescente di diversificare i mercati di sbocco per il vino italiano, riducendo la dipendenza dai nostri principali sbocchi commerciali, fra cui il mercato americano. Dobbiamo però essere estremamente realisti: sostituire il mercato statunitense non è possibile, se non nel lungo periodo. Le aziende italiane sono presenti da decenni nel mercato americano, hanno sviluppato e consolidato rapporti. Non va poi sottovalutato il ruolo della comunità italiana, anche di seconda e terza generazione, che ha permesso di promuovere una cultura enogastronomica italiana presso il consumatore americano. Ciò premesso, è chiaro che guardare anche alla diversificazione è una buona regola, sulla quale, peraltro, le aziende sono da tempo impegnate.
Cosa si può fare per attenuare l’impatto dei dazi?
L’iniziativa diplomatica del Governo italiano deve essere accompagnata da interventi mirati di promozione commerciale. In particolare, lo strumento della misura OCM va potenziato e semplificato, prevedendo un aumento dell’intensità di aiuto e maggiore flessibilità, anche nella rendicontazione delle spese, per sostenere efficacemente le imprese nelle azioni promozionali sul mercato USA e sui mercati alternativi.
(Paolo Rossetti)
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