L’invadenza del digitale ha cambiato i nostri giovani. Educarli al virtuale è la cosa più difficile. Vietare è sbagliato. Come lasciarli totalmente liberi
“La mia tesi centrale in questo libro è che queste due tendenze – l’iperprotezione nel mondo reale e la sottoprotezione nel mondo virtuale – sono le ragioni principali per cui i bambini nati dopo il 1995 sono diventati la generazione ansiosa” (Jonathan Haidt, The Anxious Generation, 2024).
Quando ho letto questa frase, ho pensato subito ai miei figli.
E a tutte le volte in cui mi chiedo se sto facendo la cosa giusta nel gestire il loro rapporto con la tecnologia.
Qualche giorno fa, la più piccola era seduta al tavolo della cucina con il computer davanti. Stava caricando un annuncio su Vinted per vendere alcuni manga che non legge più. Ha scattato le foto, scritto la descrizione, scelto il prezzo. Io ero lì accanto, presente ma senza intervenire. Non era un gioco, né un compito. Era qualcosa di più: un piccolo esercizio di autonomia dentro uno spazio digitale, ma con la presenza di un adulto. Da qui nasce questa riflessione.
Perché oggi la vera sfida per noi genitori è tutta qui: non vietare tutto, ma nemmeno lasciare fare tutto. Accompagnare.
Il nostro ruolo non può ridursi a uno dei due estremi che vedo troppo spesso: da un lato, divieti totali, rigidi, spesso inefficaci; dall’altro, una libertà assoluta, senza filtri, senza regole, senza alcun tipo di supervisione.
Non credo che serva controllare ogni cosa. Ma nemmeno possiamo permettere che tutto sia concesso, senza misura e senza contesto.
Mia figlia ha dieci anni. Ama i manga, la musica, il basket. È curiosa, sveglia, veloce, come tanti coetanei. Ed è naturalmente attratta dal digitale. Non è pronta per gestirlo da sola. E non è colpa sua. È una fase. E come tutte le fasi, se non viene accompagnata, rischia di trasformarsi in una deriva.
I dati lo confermano. Secondo Save the Children, oltre un bambino su tre tra i 6 e i 10 anni utilizza il cellulare ogni giorno, con un picco del 44,4% nel Sud Italia. Solo pochi anni fa, la media nazionale era il 18,4%. Un balzo impressionante in pochissimo tempo.
Nella fascia 11-13 anni, l’82,2% usa la messaggistica istantanea, il 45,4% frequenta i social network, il 39,3% utilizza l’e-mail.
C’è anche chi si informa online (18,5%), chi esprime opinioni su temi sociali (11,3%) e chi segue corsi (9,6%). Sono numeri che raccontano una realtà ormai strutturata: i ragazzi vivono stabilmente nello spazio digitale. E spesso ci entrano da soli.
Quello che impressiona, più dei numeri, è la normalità con cui tutto questo accade. Lo smartphone è la porta principale con cui i più giovani comunicano, si esprimono, giocano. Ma troppo spesso quella porta si apre senza nessuno che spieghi cosa c’è fuori.
Secondo le stime, il 62,3% dei preadolescenti ha già un account social, nonostante la legge – e il Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea (Gdpr) – stabilisca i 14 anni come età minima per fornire il consenso al trattamento dei dati personali (o 13 con l’autorizzazione dei genitori). La domanda è inevitabile: siamo davvero pronti a lasciarli soli in quello spazio?
L’American Academy of Pediatrics usa una definizione che trovo molto efficace:“I genitori dovrebbero essere i ‘media mentor’ dei propri figli, aiutandoli a imparare a usare la tecnologia in modo sicuro, responsabile e sano”.
Mentori, non censori. Non spettatori. Adulti che accompagnano.
Nel nostro caso, abbiamo scelto di cominciare da un gesto semplice. Niente TikTok, niente social, niente scroll infiniti, ma un profilo Vinted, aperto e gestito insieme. Da grandi fan di Cash or Trash.
È diventato uno spazio di scoperta: imparare a fare, a valutare, a scrivere, a gestire un piccolo “business” casalingo. Ogni annuncio è un’occasione per parlare di valore, di soldi, di scelte. È una forma di educazione. Digitale, certo, ma anche relazionale.
Ed è forse proprio questo il punto. Se lasciamo che la tecnologia entri nella vita dei nostri figli come uno tsunami – senza argini, senza guida – è naturale che li travolga. Ma se ci siamo, se stiamo accanto, se costruiamo significato dentro ciò che fanno, allora le cose cambiano.
Il digitale non è il nemico, va attraversato con regole, limiti e soprattutto con la nostra presenza. Con quella disponibilità ad ascoltare, osservare, mediare, che è alla base di ogni forma di educazione.
Non esistono formule perfette, ma esistono tanti piccoli gesti quotidiani che, messi insieme, costruiscono un’educazione possibile.
Forse in questo tempo iperconnesso accompagnare è il verbo educativo più rivoluzionario che ci sia.
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