Saperci fare non basta

Possiamo accumulare tutti i beni che vogliamo, ma non riusciremo a portarli con noi. Per salvare la nostra vita, occorre che Cristo sia il senso di tutto

Si era fatto un mazzo grande come una casa, grande come la casa nella quale abitava: aveva un lavoro come tutti, uno per arrotondare, un altro ancora perché lui era nato per lavorare e dormire gli pareva solo una perdita di tempo. I risultati: “La campagna di un uomo ricco aveva dato raccolto abbondante”.

La ricchezza, dunque, era il frutto del suo lavoro alacre, condito dal classicissimo “Mi sono fatto da me, nessuno mi ha regalato niente”. La sua azienda agricola, insomma, era una realtà imprenditoriale della quale andar fiero, di tutto rispetto.



Da perfetto imprenditore, lungimirante, aveva investito con intelligenza: la villa al mare per l’estate (anche se non aveva tempo d’andarci), la casa in montagna per l’inverno, i terreni comprati perché “fra qualche anno raddoppiano il valore”, investimenti bancari diversificati, un conticino aperto alle Isole Cayman perché “non sia mai che questo governo, mentre dormi, ti prelevi i soldi”.



Aveva materia da pensare, insomma: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?”. C’è chi non sa come arrivare a fine giornata e chi non sa dove nascondere tutto ciò che ha. Non che chi non ha nulla sia povero in canna e chi manco sa quanti soldi ha sia ricco sfondato. Il fatto è un altro: i ricchi sono una cosa, gli arricchiti sono un’altra cosa. I signori, poi, sono un’altra cosa ancora. Ancora diversa.

La sera, sotto il porticato con le galline a bere con lui lo champagne, aveva di che applaudirsi: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi, divertiti”. Dieci vite centenarie, forse, non gli sarebbero bastate per consumare la sua meritata ricchezza.



Forse c’era di peggio anche: in vita non s’era concesso il lusso di una vacanza, di un qualcosa che non fosse lavoro, non aveva concesso la minima tregua ai muscoli del corpo, a quelli del cuore: “Mica posso permettermi le vacanze, io devo lavorare”.

L’unico inghippo, a conti fatti, fu al sorgere dei primi acciacchi, reumatismi di stagione, malattie da curare. Fu lì che qualcosa s’incrinò, il pensiero del dopo, l’assillo che si fece da occasionale a giornaliero: “A chi lascerò tutto questo ben di Dio?”.

A nessuno, perché nessuno lo meritava come lo meritava lui. Si era convinto, da intelligente com’era, di potersi portare via tutto: le case, i campi, i fagiani e i conigli, i trattori con gli aratri, mangime e buoni postali, porte e mattonelle.

S’informò, chiamò, si mise in moto: nessuna azienda di traslochi gli assicurava di riuscire a fare stare dentro la tomba il suo incalcolabile impero. Nessuna impresa funebre aveva ancora a disposizione una cassa da morto grande tanto quanto la sua avidità.

Il sommo poeta, quando seppe che l’agricoltore morì, più che invidiarlo gli dedicò una manciata di parole: “La cieca cupidigia che v’ammalia” (D. Alighieri).

Geniale nell’imprenditoria, a fregarlo fu una piccolissima svista: si scordò – lui doveva lavorare, non aveva tempo da perdere per pensare! – di amalgamare alla materia un senso, d’infondere alla ricchezza un significato, di aprire le porte di casa.

Non che non pensasse alla morte, semplicemente si era convinto che la morte avrebbe fatto un’eccezione per lui: “Gli altri muoiono, io però non sono gli altri, quindi io non muoio” pensava tra sé. Si tirò la zappa sui piedi, la stessa con la quale aveva zappato la terra, che l’aveva arricchito: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (cfr Lc 12,13-21).

Non aveva dato retta quando, entrando per benedire l’azienda, il prete lesse qualche riga del salmo, ad personam: “Se vedi un uomo arricchirsi, non temere: quando muore con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria” (Sal 49, 16-18).

Aveva fatto tutto (molto) bene, aveva decuplicato i talenti, fatto brillare la terra, s’era preso cura del creato: fatto tutto per bene. Si scordò, occupato com’era, di dare un significato alla ricchezza, di dare un futuro alla materia nel granaio.

Da gran lavoratore, non s’accorse che, lavorando così, aveva venduto la sua anima per comprare noccioline per le scimmie. Peccato, perché l’uomo ci sapeva fare.

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