Caso Almasri, Giorgia Meloni esclusa dalle accuse, ma la battaglia sul potere politico divide governo e magistratura
Il fatto che Giorgia Meloni sia stata scagionata e ritenuta estranea a ogni responsabilità nel caso Almasri non è una buona notizia. Non lo è per i ministri Piantedosi e Nordio e per il sottosegretario Mantovano, nei cui confronti è probabile che arrivi una richiesta di rinvio a giudizio. Non lo è neppure per l’opposizione, che urlerà a squarciagola ma non potrà che constatare che nulla tocca personalmente la Meloni.
E non è una buona notizia neppure per i magistrati, costretti a far apparire la Meloni come una sorta di pupazzo senza ruolo, alle cui spalle i tre esponenti del governo avrebbero agito in violazione, presunta, della legge.
La povera Meloni, inconsapevole. Anzi, esclusa da una delle più importanti decisioni sulla sicurezza nazionale degli ultimi mesi. Un teorema che cozza con la narrazione di ducetta, capetta e dittatrice che le hanno affibbiato, incarnazione al femminile del neofascismo, ma che in pratica non comanderebbe nulla.
E qui la Meloni cala un asso: rivendica di sapere tutto, di aver deciso, di aver partecipato e di essere informata. In pratica chiede di essere accusata e messa sotto processo se lo saranno i suoi ministri.
L’esatto opposto di una scelta processuale sensata: nessun sospiro di sollievo per averla scampata, bensì la voglia matta di essere lei a prendere sul petto le frecce per i suoi. Una roba spericolata e insensata se accadesse in una normale aula giudiziaria.
Solo che in questo caso le cose stanno diversamente. Per poter procedere in sede penale serve un voto del Parlamento, e quel voto ha un esito scontato. Anzi, più diventa politicamente rilevante la vicenda, più quel voto diventa obbligato.
Il tentativo di farle buttare a mare i suoi, escludendola dalle accuse, è una mossa sicuramente furba ma poco coerente sul piano della logica politica. Non puoi accusare i ministri e un sottosegretario di aver deliberatamente escluso il loro capo e pensare di metterlo così in crisi. La Meloni sa che, caduto uno, cadono tutti, lei compresa. Sa che i giudici vogliono una sola cosa: che i parlamentari li assolvano con un voto e che la politica appaia una nuova casta che si difende dalle inchieste.
Tutto porta a pensare che così si voglia indebolire la riforma della giustizia e non far passare il referendum. Ma qui non ci sono mazzette e soldi, non ci sono affari privati da tenere segreti. Non c’è un interesse personale. Si sta giudicando un’operazione politica che doveva restare riservata e la domanda da porsi è a chi spetta gestire i servizi segreti e le loro attività, se non al governo.
Può la magistratura entrare nel merito di queste decisioni al punto di sindacare la convenienza politica di una condotta? I servizi segreti sono probabilmente all’origine di questa vicenda. Il grande clamore è sicuramente figlio di una eccessiva diffusione di dati, informazioni e notizie che andavano tenute riservate.
Ora che tutto è pubblico, diventa tutto estremamente politico. E lo spazio di potere che la politica difende per sé, e che la magistratura rivendica di poter sindacare, è uno spazio stretto e angusto ma essenziale.
È quello spiraglio che divide i decisori di un governo eletto dalle valutazioni di un corpo tecnico estraneo al consenso. Dare più spazio all’uno o all’altro significa schierarsi anche sulle prossime battaglie che porteranno al referendum. Da come sta andando questa lunga battaglia è certo che alla fine o avremo uno Stato governato dai giudici o uno Stato governato dagli eletti. La coabitazione non sembra più un obiettivo per nessuno dei due.
Prepariamoci a decidere con il voto al referendum sulla riforma che cosa vogliamo tra le due opzioni. Il voto su Piantedosi, Nordio e Mantovano, invece, è già scontato a loro favore. Come sanno, e vogliono, anche i magistrati che chiederanno il rinvio a giudizio.
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