L'intreccio fra guerra - come "politica condotta con altri mezzi" - e mercato - economia condotta sotto il primato di modelli specifici - è ancora forte
I tentativi confusi di conclusione della “Terza guerra mondiale a pezzi” maturano in un contesto di apparente rottura con il trentennio precedente la pandemia: e la presidenza di Donald Trump negli Usa sembra essere l’ariete simbolico di un brusco cambio d’epoca, all’insegna della “fine di tutte le guerre” e del ritorno a una pretesa “normalità” degli affari.
Eppure l’intreccio fra guerra – come “politica condotta con altri mezzi” – e mercato – economia condotta sotto il primato di modelli specifici – sembra ancora fortissimo: poco distinguibile da quello della fase precedente. Un’era – quella della globalizzazione finanziaria – che non è stata certo immune dall’uso brutale delle armi: basta rammentare due guerre dell’Iraq inframmezzate dall’11 settembre, nel cuore degli Stati Uniti. Oppure le operazioni Nato in Serbia e Libia, senza dimenticare la Prima guerra ucraina e lo stato di conflittualità quasi permanente attorno a Israele.
Ora Trump si autocandida al Premio Nobel per la Pace con la pretesa di cancellare le guerre guerreggiate ovunque (per la verità una situazione simile si era creata nel corso del suo primo mandato, per quanto non scevro, ad esempio, di un bombardamento sub-atomico all’Iran). Ma i dazi usati come missili sono stati subito collocati in una cornice mediatica di guerra: tutt’altro che impropriamente. E perfino la diplomazia dispiegata a cavallo di Ferragosto per forzare la cessazione delle ostilità fra Russia e Ucraina appare imperniata su strumenti ambigui: formalmente “pacifici”, sostanzialmente impastati di “guerre e mercati”.
È esemplare il ritorno d’attualità dell’opzione “land for peace”: peraltro già vecchia di mezzo secolo – assieme a quella eminentemente politica “due popoli due Stati” – per spegnere i conflitti in Medio Oriente. “Scambiare” terra con pace; offrire alla Russia l’accesso ai giacimenti minerari in Alaska (anche in nome di un contratto di vendita agli Usa ormai vecchio di due secoli); mantenere all’Ucraina il supporto bellico solo in cambio del rimborso in terre rare degli aiuti erogati da Washington negli ultimi tre anni; non da ultimo: premere sui confini politico-commerciali di Canada, Groenlandia e Panama (dove il Canale era affittato agli Usa fino a pochi anni fa).
Come ha scritto Giorgio Vittadini su Il Sole 24 Ore di ieri, il lento declino del neo-capitalismo rilancia il ruolo degli Stati. Ma pare anche evidente come questo ritorno – peraltro sotto il primato di un tycoon – sembra avvenire in dialettica opaca con il trionfo del turbocapitalismo e della finanziarizzazione dell’economia, di cui si vorrebbe dichiarare la fine (se non il fallimento).
Mettere in gioco “la terra” (in Ucraina, in Medio Oriente, su una “post-colonia” europea in America del Nord, perfino dentro i confini Usa) non sembra un approccio culturalmente diverso da quello che ha trasformato una larga parte dei grandi gruppi tradizionali – prime fra tutte le grandi utilities europee – da soggetti di economia reale a oggetti di economia “di mercato”. Utili a Ipo e Opa – “valori finanziari per i proprietari” – non a creare Pil, lavoro, innovazione L’inizio di ciò che chiamiamo modernità – all’uscita dal feudalesimo e agli albori della rivoluzione industriale – ha preso forma in direzione contraria.
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