Al Meeting lavorano e si incontrano persone di ogni età e ceto sociale: una diversità che viene da un impegno della fede con la vita
Caro direttore,
girando per i padiglioni della fiera di Rimini in questi giorni la cosa che mi ha colpito di più è la diversità. In un momento in cui il mondo discute di diversità, equità ed inclusione, nei padiglioni del Meeting si incontra realmente la diversità.
Diversità a partire da chi fa il Meeting, ovvero i volontari, che vanno dalle ragazzine diciassettenni a professionisti in giacca e cravatta, dagli operai in pensione agli studenti universitari.
Diversità nei contenuti affrontati, dal dibattito teologico che segnò il Concilio di Nicea alle politiche economiche dell’Unione Europea, dal vescovo siriano al Ceo di una multinazionale, dalla celebrazione mattutina della messa (alle 8.30 del mattino e sempre con almeno 500 persone partecipanti) alla serata di musica moderna con gli stessi 500 ragazzi che ballano e cantano.
Diversità tra le persone che frequentano la fiera, dove compare la vecchia coppia di ciellini milanesi che non si è mai persa un Meeting, ma anche il gruppo di ragazzi di un oratorio della periferia di Firenze, tra i quali spicca una giovane con il velo a braccetto con un’amica in shorts e magliettina aderente.
Che cosa permette a questa diversità di stare assieme se lo chiede anche Francesco Bei, giornalista di Repubblica, quotidiano non certamente di area ciellina, che in un articolo comparso martedì 26 agosto racconta colpito della mostra sulla pace proposta da un gruppo di studenti di Gioventù Studentesca: “questi sono ragazzi normali, che fanno le loro esperienze normali, … solo, a volte si fermano. Il segreto è tutto lì”.
È questo fermarsi che ha generato la mostra sulla pace, come quella sulla guerra in corso in Ucraina; che ha portato a preparare una mostra sulla scienza dei materiali ed una su Vasilij Grossman, che porta ad approfondire in diversi incontri la storia dei movimenti ecclesiali e le evoluzioni in corso nel mondo del lavoro, la sostenibilità del debito pubblico e la storia della Siria.
Racconta sempre a Repubblica Giacomo, diciottenne milanese: “negli anni, crescendo, questo qualcosa di bello, che mi ha attratto la prima volta in cui sono andato ad una riunione di CL, ho iniziato a chiamarlo Cristo”.
Passeggiando per i padiglioni del Meeting si nota come la fede cristiana diventa opera, diventa impegno con la realtà, con il sociale, con il mondo: dal sacerdote ucraino che si arruola nell’esercito per accompagnare i propri ragazzi, a volte anche nella morte, alla cooperante italiana che resiste ad Haiti cercando di far sopravvivere i progetti educativi, all’imprenditore che fonda una banca che possa offrire servizi a chi era escluso dal circuito bancario.
Al Meeting non c’è separazione tra fede e realtà vissuta, pur nella diversità delle condizioni di vita, nella diversità dei luoghi e delle epoche, nella diversità delle passioni e dei caratteri di ciascuno; emerge un’umanità unita e viva, la cui fede si alimenta nell’incontro con la realtà, e che per questo è in grado di dialogare con tutti, dal vescovo ortodosso al monaco buddista, dal presidente del Consiglio al giornalista di sinistra.
È solo la fede alimentata dall’incontro con la realtà che può rimanere fedele alla sua natura, che può non essere un ricordo devoto ma che può permettere di stare di fronte alle grandi domande dell’uomo, come hanno fatto i ragazzi della mostra sulla pace e come tenta di fare, tutti i giorni, il popolo del Meeting.
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