L’occupazione va bene ma i salari non sono adeguati. Per farli crescere deve aumentare la produttività. E gli investimenti favoriti da un nuovo fisco
Il tasso di occupazione continua ad avere un andamento positivo. Anche la stabilizzazione con contratti a tempo indeterminato prosegue il trend di crescita. Restano i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro. Il numero degli inattivi resta troppo alto rispetto a quanto avviene nei Paesi europei che hanno un tasso di sviluppo comparabile al nostro e i problemi principali riguardano l’inattività di quote significativi fra i giovani e le donne in età lavorativa.
La situazione economica diffusa ha goduto della crescita occupazionale determinando una situazione dei redditi famigliari che è migliorata rispetto ai dodici mesi precedenti. Notizia solo apparentemente positiva, perchè ci dice che la crescita dell’occupazione è legata ai mancati investimenti in produttività. Per questo crescono gli occupati ma non crescono i salari e la crescita dei prezzi, più sensibile fra i beni di prima necessità, è stata affrontata con entrate famigliari maggiori, ma a scapito del riconoscimento economico dato al lavoro.
La situazione è da tempo oggetto di dibattito anche perchè la differenza geografica del costo della vita si è accentuata. Caso limite Milano, dove la forte crescita del costo delle abitazioni, sommata a un costo della vita superiore alle altre città, crea concorsi pubblici deserti, perchè gli stipendi non basterebbero a coprire le necessità economiche. Ma la situazione di difficoltà ad “arrivare al 27” riguarda larga parte del Paese, proprio per il parziale o totale mancato recupero del taglio del valore reale dei salari dovuto all’inflazione.
I sindacati premeranno per fare dei mesi autunnali il limite per il rinnovo dei contratti di categoria ancora aperti. Metalmeccanici e settori della pubblica amministrazione stanno ancora cercando una intesa fra le parti. Più si allungano i tempi e più appaiono parziali gli aumenti previsti.
La politica mostra attenzione ma il dibattito offre poche idee di impatto.
Salario minimo e reddito di cittadinanza su base regionale sono i cavalli di battaglia a sinistra. Il tema dei salari non trova certamente nel salario minimo una risposta strutturale. Lasciamo pure da parte in questa sede il principio per cui i salari crescono per contrattazione e non per legge, se vogliono corrispondere realmente a crescita di valore reale. In ogni caso se con il salario minimo prefissato avremo una tutela per quelle fasce di lavoratori inseriti in settori dove i contratti sono o troppo bassi o aggirati, un aumento della distribuzione del reddito a favore del lavoro vi è con la crescita dei salari medi. Così si misura il recupero non solo del valore reale ma si aumenta il reddito disponibile per ogni posizione lavorativa.
Per quanto riguarda l’idea del reddito di cittadinanza regionale si lancia uno slogan che ha già prodotto i tipici danni del populismo senza contenuti. Non è l’abolizione nè della povertà nè dei salari bassi. Al massimo potrà diventare un intervento economico di sostegno ai percorsi di reinserimento al lavoro. Queste sono peraltro le competenze regionali e le spese ammesse dal fondo sociale europeo. Utile intervento se è per rafforzare i programmi di politica attiva del lavoro nei territori, ma senza impatto sui redditi dei lavoratori.

Al Meeting di Rimini la presidente del consiglio ha affrontato il tema dei costi del vivere. Casa e sostegno alle famiglie sono stati i due passaggi su cui ha indicato che verranno presi provvedimenti importanti. Sarebbero interventi strutturali che abbatterebbero costi che in questi anni hanno inciso nel determinare la perdita di valore dei salari.
Si vedrà nei prossimi mesi come quanto indicato nell’intervento di Rimini diventerà contenuto per provvedimenti operativi.
Finora nelle scelte di governo è prevalsa la politica dei bonus. Individuati bisogni primari di fasce di popolazione in difficoltà si prevedono finanziamenti per fornire l’accesso a questi beni per famiglie che ricadono nelle condizioni di disagio definite.
L’insieme delle scelte fatte, che si sommano al reddito di cittadinanza e quello di inclusione, hanno però determinato, come rilevato ormai da diverse ricerche, non una uscita dalla povertà di chi riceve i sostegni, ma una spinta verso la inattività di chi, qualora inserito in un’occupazione, perderebbe l’accesso ai sostegni monetari o per bonus.
Auguriamoci che le misure annunciate per le nuove politiche famigliari tornino a rispettare il principio di universalità che stava alla base dei servizi di welfare che hanno storicamente dimostrato essere realmente efficaci.
Ciò che però emerge dalle proposte dei dibattiti estivi è una grande assenza, quella delle proposte per un nuovo sviluppo del Paese. Tutte le proposte avanzate sono nuove spese. L’idea di indicare una via per nuove risorse pare dispersa nelle riflessioni sul futuro. Eppure ciò che appare indispensabile per realizzare una distribuzione del reddito a favore del lavoro è oggi in primo luogo una crescita della produttività e una riforma fiscale che premi la produzione contro la rendita. Dopo semestri di calo della produzione manifatturiera è indispensabile che si torni a proposte di politica industriale.
Si può tornare a proporre politiche di crescita per contrasto con tensioni sociali o aprire una stagione di confronto avendo individuato obiettivi comuni.
Crescita dei salari medi legati a patti di produttività chiedono una politica concordata fra tutte le rappresentanze sociali. Partiamo da un accordo che tuteli i salari in presenza di mancati accordi di rinnovo contrattuale e una politica di sostegno agli investimenti. Legare a questo impegno la crescita dei salari reali. Può essere il nocciolo per un patto vero fra politica, imprese e lavoratori per un autunno capace di rilanciare la crescita del Paese.
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