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Home » Economia e Finanza » SPY FINANZA/ Dai panda-bond all’Oil&Gas, Cina e Russia preparano la crisi del dollaro

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SPY FINANZA/ Dai panda-bond all’Oil&Gas, Cina e Russia preparano la crisi del dollaro

Mauro Bottarelli
Pubblicato 9 Settembre 2025
100 yuan renminbi. Sullo sfondo, la Popular Bank of China (Ansa)

100 yuan renminbi. Sullo sfondo, la Popular Bank of China (Ansa)

Distratti dalla parata militare, i Paesi occidentali si sono dimenticati di fare attenzione ai 27 accordi siglati tra Russia e Cina

Per il Segretario al Tesoro USA, Scott Bessent, “gli USA sono pronti ad aumentare la pressione sulla Russia ma abbiamo bisogno che i nostri partner europei ci seguano”. E ha proseguito: “Il duello a questo punto è tra quanto a lungo l’esercito ucraino potrà resistere e quanto a lungo l’economia russa potrà resistere”. Ma se UE e USA “impongono più sanzioni secondarie, l’economia russa collasserà e questo porterà Putin al tavolo delle trattative”.


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Idiozie. Lo sappiamo tutti. E state certi di una cosa: lo sanno gli USA per primi. I quali, infatti, hanno lasciato che fosse l’UE a impiccarsi alla corda energetica di 17 pacchetti di sanzioni. Guadagnando a costo zero il mercato LNG del Vecchio Continente. Ciò che non capiamo è che ormai la Russia è una provincia della Cina. E l’ultimo vertice fra i due Paesi ne è stata la conferma.


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Chiaramente, qui si è parlato solo di Power of Siberia 2 via Mongolia. Ovvero, si è parlato unicamente di un atto formale, una firma su un qualcosa di già concordato, vincolato, deciso. Date un’occhiata invece a cosa sta accadendo in questi giorni.

Per la prima volta dal 2017, tornano i panda-bond. Ovvero, obbligazioni in valuta cinese con cui le aziende energetiche russe intendono finanziare i propri progetti. E, di fatto, mostrare le corna come Vittorio Gassman ne Il sorpasso. Scommettete che sui media italiani troverete una sovrabbondanza di Scott Bessent e pressoché zero di panda-bonds?


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E sapete su cos’altro vi terranno all’oscuro, alla luce degli ultimi accadimenti sul campo che sembrano mostrare una chiara volontà del Cremlino di perseguire una politica dei due forni, aprendo formalmente alla diplomazia e aumentando di intensità ed efficacia i raid militari? Quasi a voler sfidare USA e UE, appunto, dopo l’incontro con Xi Jinping a Pechino.

Vi terranno all’oscuro del fatto che, al netto di una valuta russa che ha guadagnato il 45% rispetto al dollaro da inizio anno, ciò che deve far riflettere in vista di un potenziale showdown che vada pesantemente a impattare sul comparto energetico è il fatto che nel 2024 il 95% dei commerci fra Cina e Russia – legame appena rinsaldato da 27 accordi commerciali e infrastrutturali siglati fra Mosca e Pechino – è stato denominato in rubli e yuan.

Le negoziazioni bilaterali fra queste valute hanno pesato per un controvalore di 33 trilioni di rubli (420 miliardi di dollari) nel 2024, a fronte di un interscambio fra i due Paesi per 245 miliardi di dollari, record assoluto. E anche in termini di cambio diretto, il rublo ha segnato un +25% sullo yuan da inizio anno. Le aziende energetiche rimpatriano quindi earnings in yuan, mentre gli importatori utilizzano yuan per acquistare beni.

Insomma, il focus di molti analisti su comparti chiave come le commodities già oggi è concentrato sul tasso rublo/yuan. E non più sul dollaro. Ma in termini generali, chiaramente, i conti senza il biglietto verde ancora non si possono fare. Quindi Mosca sa che un rublo eccessivamente apprezzato genera minori entrate fiscali per il budget federale, poiché le revenues energetiche in dollari scontano appunto quella forza eccessiva nel cambio.

Ecco, quindi, il cambio di strategia che un’eventuale implementazione anche secondaria del regime tariffario europeo che vada a combinarsi con un bando USA legato alla promessa tradita di Vladimir Putin potrebbe generare, spingendo sempre più Mosca fra le braccia di Pechino. Vedendo il sostanziale ed esiziale mercato energetico (e di terre rare) russo chiudere definitivamente i ponti con l’Occidente, epilogo che la firma appena apposta sul progetto di pipeline Power of Siberia 2 via Mongolia già oggi certifica ma che, appunto, rappresenta solo la punta di un iceberg emerso solo in piccola e paradossalmente ancora inoffensiva parte.

Attenzione ulteriore, quindi. Perché mentre il dibattito a dir poco provinciale di questo Paese si focalizza sulla presenza a Pechino dell’ex premier Massimo D’Alema, ecco che sfuggono alcune cifre che potrebbero a breve tramutarsi in disvelamento di un colossale errore strategico da parte del governo Meloni nella sua fase di appeasement preventivo verso l’amministrazione Trump, quando stracciò il memorandum d’intenti con Pechino proprio alla vigilia del bilaterale UE-Cina a Bruxelles.

Nella prima metà di quest’anno, le aziende cinesi hanno infatti pompato qualcosa come 44 miliardi di dollari in accordi commerciali e infrastrutturali energetici con nazioni aderenti al programma Belt and Road, il massimo da quando l’iniziativa della Nuova Via della Seta cinese fu lanciata nel 2013.

E non basta. Il totale del finanziamento ha appena raggiunto il controvalore record di quasi 124 miliardi di dollari divisi su 176 progetti, più del doppio della cifra investita nel medesimo arco temporale del 2024, stando a un report appena diffuso dal Fudan University’s Green Finance & Development Center. Per mettere la questione in prospettiva, l’intero 2024 registrò investimenti per 122 miliardi. Già battuti. Dei 44 miliardi dedicati al comparto energetico, 30 sono andati al settore Oil&Gas, fra cui un contratto record da 20 miliardi di dollari assicuratosi dalla China National Chemical Engineering International Co. Ltd. Per la costruzione di una facility di processazione nel parco industriale di Ogidigben in Nigeria.

E il fatto che in contemporanea gli USA stiano pesantemente mettendo nel mirino il Venezuela con l’alibi della lotta al narcotraffico e l’Arabia Saudita continui a spingere (e ottenere) aumenti della produzione di petrolio in seno all’OPEC sembrano altrettante conferme del fatto che il comparto energetico sia da tenere in focus assoluto. E sia destinato a divenire il potenziale game changer geopolitico, alla faccia delle chimere tech e AI (di cui parleremo in uno dei prossimi articoli). Ma, soprattutto, di come l’Europa stia lastricandosi autonomamente, definitivamente e volontariamente la strada verso la stagflazione. Terminale.

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Tags: Xi JinpingGiorgia MeloniDonald TrumpVladimir PutinGoverno Meloni

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